Dai dieci mesi ai cento giorni

Prefazione a
Napoleone all’isola d’Elba – Giovanni Livi

Ci sono voluti il romanzo N. di Ernesto Ferrero nel 2000 e il film – liberamente tratto, molto liberamente – di Paolo Virzì N. – Io e Napoleone nel 2006 per riportare all’attenzione del pubblico il breve e curioso soggiorno di Napoleone Bonaparte nell’isola d’Elba. Gli Elbani, a dire il vero, non hanno mai dimenticato quei dieci mesi, come uno degli episodi più significativi della storia patria, e in questo 2014 in cui scriviamo si sono preparati a celebrare il bicentenario dell’avvenimento con un fitto calendario di mostre e rievocazioni storiche. Duecento anni ci separano infatti dal giorno in cui il condottiero più celebre del suo tempo, l’uomo che dal nulla si era fatto Imperatore e aveva soggiogato buona parte dell’Europa, sbarcò a Portoferraio per prendere possesso di un’isola di 200 chilometri quadrati.

Si sente spesso parlare, infatti, di esilio di Napoleone all’Elba. Ora, non vi è dubbio che nei fatti di esilio si trattasse, essendo il soggiorno forzato e condito dalla vigilanza degli Inglesi; ciò di cui a volte ci si dimentica, però, è il fatto che, in segno di riguardo, l’esilio era stato mascherato sotto la forma più gentile e probabilmente ipocrita dell’assegnazione di un principato.

In quella primavera del 1814, all’indomani della vittoria della cosiddetta Sesta Coalizione, le potenze vincitrici si erano poste il problema di cosa fare dell’ingombrante sconfitto. Delle varie ipotesi formulate, prevalse la più moderata: il côrso avrebbe dovuto abdicare dal ruolo di Imperatore (anche se, a livello formale, avrebbe mantenuto il titolo) e in cambio sarebbe stato fatto Principe dell’Isola d’Elba. Non sarebbe dunque sbarcato all’Elba da prigioniero, ma da governatore. Non tutti erano d’accordo. Noto è il parere di Talleyrand, secondo cui l’isola era troppo vicina e avrebbe consentito a Napoleone di “spiare l’Europa dal buco della serratura”; meglio mandarlo il più lontano possibile, magari sulla remota Isola di Sant’Elena. Parole profetiche.

Ma, per lo meno in questa occasione, non fu ascoltato. Il 4 maggio 1814, salutato con sorpresa e – a parte Martino, il protagonista del romanzo di Ferrero – con gioia, l’Imperatore prendeva ufficialmente possesso del suo nuovo, circoscritto, dominio.

Abbiamo perciò pensato di celebrare a nostro modo la ricorrenza riproponendo un classico saggio sull’argomento, scritto da Giovanni Livi, archivista e storico attivo tra XIX e XX secolo. Un testo scorrevole e godibile, che attinge le sue informazioni a una gran quantità di materiale d’archivio, in buona parte proveniente dai rapporti degli informatori della polizia del Granduca di Toscana. Possiamo così osservare Napoleone che finge di desiderare davvero di passare gli ultimi anni della sua vita ad amministrare l’isoletta e le sue semplici necessità; l’ingenuità di taluni autoctoni che, prestandogli credito, intonano in suo onore inni e canti sull’umiltà del condottiero caduto; quelli che non gli credono affatto, e sperano di conquistare l’ospite a nuove cause come l’unificazione d’Italia sotto il pomposo nome di Nuovo Impero Romano; e, inoltre, tanti dettagli di vita quotidiana, dalle spese per il mantenimento alle varie, a volte misteriose, visite femminili.

A giudicare da questi rapporti, quei dieci mesi furono tutt’altro che tranquilli. Piuttosto, un continuo mormorìo sottovoce di sospetti, piani elaborati e mai portati a termine, varie ipotesi fatte e scartate, tutto caratterizzato dall’avere al centro dell’attenzione lui, l’uom fatale. Si sarebbe davvero rassegnato a quel ruolo minuscolo? Avrebbe accettato nuove sfide nella nostra penisola?

Come poi andò a finire la vicenda lo sappiamo tutti. Da buon giocatore d’azzardo, Napoleone aveva compiuto il suo bluff. Mai realmente interessato a vivere una pensione dorata come re di un’isola, né a prendere in mano le redini di un improbabile nuovo Impero Romano, dopo meno di un anno fuggì per gettarsi nell’unica impresa che aveva a cuore: riconquistare il dominio e soprattutto l’affetto della sua Francia. Iniziavamo i Cento Giorni.

Marcello Donativi