Maledetto e benedetto per sempre

Prefazione a
Manhès – Un generale contro i briganti – AA.VV.

Si dice comunemente che la storia la scrivano i vincitori. Questo è vero, forse, soltanto per i manuali scolastici. In realtà, la storia la scrivono tutti: vincitori, vinti, spettatori neutrali. Come spesso abbiamo suggerito, basta soltanto andarsela a cercare.

Solo che la vita è molto più comoda per chi non ha questa pazienza. Ci si può accontentare della versione dei fatti fornita dal primo che passa – in questo caso sì, generalmente il vincitore – oppure dallo sconfitto che ci è più simpatico. I problemi si presentano, invece, a chi cerca di confrontare le fonti e si ritrova puntualmente in un guazzabuglio di contraddizioni, pareri discordanti, mille e più versioni differenti dello stesso avvenimento. Districarsi è un compito difficile, ma indispensabile per chi, amatore o professionista che sia, intende dedicarsi allo studio della storia. Mi spingo oltre: è proprio questa contraddittorietà a renderla affascinante.

In questo volume parliamo della vita di un generale francese di epoca murattiana. A un livello più profondo, però, parliamo anche delle mille sfaccettature della storia.

Al giorno d’oggi la figura del generale Manhès è praticamente dimenticata. Nel XIX secolo, invece, il suo nome era piuttosto conosciuto in Italia, al punto da diventare quasi un termine topico. Nominarlo significava, per molti, evocare la legge più inflessibile, spinta ai limiti del sadismo. Soprattutto nel Mezzogiorno, in cui il francese aveva operato negli anni ’10 del secolo, fioccava un lunga lista di aneddoti, tutti caratterizzati, quale più quale meno, dalle tinte forti: paesi incendiati, fucilazioni sommarie, condanne a mutilazioni. Un autentico campionario di orrori, che aveva il suo comune denominatore in questo nome: Carlo Antonio Manhès.

La vicenda in sé, per la verità, si racconta in poche parole. Una volta instaurato il dominio napoleonico nel Regno di Napoli, uno dei primi provvedimenti da affrontare era la pacificazione di alcune regioni, in particolare Abruzzo e Calabria, percorse da bande armate di varia natura. L’incarico fu affidato a Charles-Antoine Manhès, aiutante di campo di Murat già distintosi in alcune battaglie, su tutte Austerlitz. Siamo nel 1810: Manhès in poco tempo riuscirà a reprimere completamente le bande, utilizzando quello che viene comunemente detto il ferro e il fuoco. Raggiunto l’apice degli onori, il tracollo dell’Impero lo portò, invece, prima a una rocambolesca fuga dall’Italia, successivamente, tra alterne vicende, a una tranquilla pensione nella restaurata monarchia francese.

Qui termina la storia e inizia la storiografia. Con tutti i suoi dilemmi, le sue contraddizioni, gli infiniti punti di vista. È il percorso che abbiamo cercato di seguire in questo volume: vi troverete raccolte le più significative fonti sulla vita di questo personaggio. Con tutta una serie di differenze che cercheremo di tracciare in breve.

Inizialmente, a parlare di Manhès sono i compilatori di alcuni dizionari enciclopedici francesi, pubblicati quando il generale era ancora in vita. Il loro è il punto di vista della Francia, un’ottica quindi piuttosto lontana dall’Italia e interessata a una visione complessiva della sua carriera militare. Sono fonti preziose per conoscere la vita di Manhès prima e dopo l’esperienza napoletana; tuttavia, la loro ragione di interesse risiede più nelle omissioni che nei dettagli. Per queste voci enciclopediche, il generale è un eroe di guerra: veterano delle guerre napoleoniche, decorato ad Austerlitz, ha tra le altre cose ben compiuto delle operazioni di ordine pubblico del regno di Murat. La lotta al brigantaggio è dunque soltanto una breve parentesi nella brillante carriera di un militare che continua a godere, negli anni della pensione, del riconoscimento e dei favori della classe dirigente.

Ben diverso il ricordo che Manhès aveva lasciato in Italia. E infatti, nel momento in cui andiamo a leggere le prime testimonianze di autori italiani, il tono cambia sensibilmente. Innanzitutto, costoro non sono, logicamente, interessati più di tanto all’intera carriera di Manhès. È la repressione delle bande armate calabresi l’aspetto su cui focalizzano l’attenzione (parliamo, d’altra parte, di opere dedicate alla storia d’Italia). Con Carlo Botta e Pietro Colletta siamo ancora in un periodo piuttosto vicino agli avvenimenti narrati, ricco di testimoni oculari in vita. I due storici devono, quindi, fare i conti con una consistente mole di aneddoti e racconti popolari sui metodi adottati dal generale francese. Quello che emerge, in sostanza, è il fatto che colui che in patria godeva dell’immagine di un diligente servitore dello Stato, in Calabria aveva fama di crudele amministratore, fautore di leggi draconiane, protagonista di una lunga serie di episodi truculenti. Entrambi gli storici che abbiamo nominato, pur simpatizzando per il regno di Gioacchino Murat, si trovano a confrontarsi con questo aspetto poco lusinghiero della sua amministrazione. Se la cavano in maniera diversa: Botta ammette la ferocia delle misure prese da Manhès, ma la considera un male necessario, concludendone che in Calabria «il suo nome saravvi e maledetto e benedetto per sempre»; Colletta, invece, sminuisce questa fama attribuendola a esagerazioni e calunnie della tradizione orale.

Facciamo un salto di qualche decennio e arriviamo agli anni ’60 del XIX secolo. Oramai il generale Manhès è morto, ma la sua fama resta viva, se non altro perché, nel frattempo, gli avvenimenti storici hanno reso nuovamente attuale la sua vicenda. All’indomani dell’Unità, infatti, il neonato Regno d’Italia si trova a confrontarsi con una situazione paragonabile, ma in misura probabilmente peggiore, a quella vissuta a suo tempo da Gioacchino Murat: un nuovo potere politico chiamato a fronteggiare una situazione di anarchia estrema, l’aperta ribellione di interi settori della società organizzatisi in bande armate dedite al saccheggio e alla distruzione. Ai contemporanei, molto più vicini di noi ai tempi di Murat, venne facile richiamare alla memoria l’esperienza di Manhès e utilizzarla come metro di paragone, ora per spronare, ora per criticare il nuovo potere sabaudo.

È qui che si inserisce la testimonianza più lunga e forse più interessante della nostra antologia: quelle Memorie autografe del generale Manhès intorno a’ briganti compilate da Francesco Montefredine, un feroce libello pubblicato nel 1861 con lo scopo di presentare l’ufficiale murattiano come un modello da seguire per il generale Enrico Cialdini, da poco incaricato della luogotenenza dell’ex Regno delle Due Sicilie. L’autore del pamphlet non nega né rinnega le misure estreme di Manhès; anzi, le approva in toto e le vorrebbe attuate anche nel Sud Italia del 1861. È una lettura dura e a volte anche difficile, piena com’è di odio anti-borbonico, anti-clericale e soprattutto di un mal celato razzismo nei confronti dei meridionali, “selvaggi senza legge, senza umanità, con quelle facce brune, con gli occhi scintillanti e foschi”, o addirittura più avanti “malnata genìa”. Si tratta, però, di una lettura, se pur tutt’altro che rappresentativa dei movimenti filo-unitari, piuttosto utile a ricostruire il clima di esasperazione dei liberali davanti alla difficile pacificazione del Sud; quello stesso clima che avrebbe portato, di lì a poco, ai provvedimenti – per l’appunto, simili a quelli di Manhès – della legge Pica sul brigantaggio. Tanto più che, per Montefredine, qualunque misura, anche la più repressiva, venga adottata, la colpa sarà comunque da addossare al decaduto governo dei Borboni e dei preti, che hanno provocato il brigantaggio corrompendo, anno dopo anno, la moralità dei loro sudditi.

Giacinto De Sivo scrive grosso modo negli stessi anni di Montefredine. Mai, però, un punto di vista potrebbe essere più lontano. La voce è, adesso, quella di un intellettuale napoletano fedele ai Borboni, la cui vita è stata colpita e stravolta dall’Unità d’Italia: perseguitato, spogliato dei suoi beni, costretto all’esilio per la sua opposizione alla politica piemontese. Non può essergli simpatico un soldato al servizio di una potenza straniera che ha spodestato i Borboni per mettere al loro posto un re francese; tanto più che, anche in questo caso, scatta un meccanismo di identificazione tra il brigantaggio del 1810 e quello del 1861. Non dimentichiamo che le ultime, appassionate pagine della sua Storia delle Due Sicilie sono dedicate proprio al brigantaggio e alla sua repressione. Manhès, allora, è tutt’altro che un esempio da seguire: è l’autore di misfatti di cui inorridisce l’umanità. Un servo degli invasori, interessato non tanto a colpire i briganti, quanto l’inerme popolazione civile, su cui si abbatte come una calamità naturale. Nel breve paragrafo che gli dedica, De Sivo, con il suo stile infiammato, ne traccia un ritratto apocalittico, come un flagello biblico intento a disgregare ogni legame sociale, ogni forma di religiosità o di sentimento.

È la stessa linea adottata, una decina di anni più tardi, da un altro scrittore di parte borbonica, Giuseppe Buttà. Quando il sacerdote messinese compila la sua storia dei Borboni di Napoli, anche il brigantaggio post-unitario è ormai un ricordo lontano. Tra il 1861 e il 1864 le misure del Regno d’Italia sono state così energiche da estirparne ogni ragione d’essere; allo stesso tempo, hanno rafforzato il paragone, prima soltanto ipotizzabile, con le azioni di Manhès. Quindi, ancora una volta la rievocazione di quegli avvenimenti di inizio XIX secolo è vissuta come una metafora della storia più recente. Buttà, però, aggiunge esplicitamente un nuovo dettaglio: si rifiuta di considerare le bande del 1810, così come quelle del 1861, un fenomeno di delinquenza comune, quanto piuttosto una forma di resistenza popolare armata contro l’invasore straniero. Il suo Manhès, dunque, è affatto il guardiano dell’ordine e della pace tracciato dai vari Colletta e Montefredine, ma, come e più di quello di De Sivo, un criminale di guerra intento a soffocare nel sangue la giusta ribellione di un popolo assoggettato.

Come si vede, ci troviamo davanti a una serie di interpretazioni assolutamente inconciliabili della figura di Manhès. Attenzione: interpretazioni, non ricostruzioni. È una differenza importante da rimarcare. Tra gli autori che abbiamo raccolto, non sono tanto gli aneddoti a cambiare, tanto più che spesso costoro hanno utilizzato l’opera del predecessore come fonte documentaria (Buttà, ad esempio, ammette esplicitamente di trarre le sue informazioni da Colletta). Quello che cambia, più semplicemente, è il giudizio di valore. I fatti sono lì, assodati: bande armate, un ufficiale ambizioso, una serie di leggi eccezionali, il ripristino dell’ordine attraverso inflessibili azioni di polizia. Eppure, le domande restano.

Chi era davvero Manhès? Un benemerito pacificatore, o un sadico genocida? Un liberatore dalla tirannia o un dominatore straniero? E le bande: delinquenti comuni o partigiani in lotta per l’indipendenza?

Sono quesiti che resteranno in sospeso e, quel che più conta, chi ha cercato di fornire una risposta è stato anche spesso, e in modo consistente, influenzato dagli avvenimenti del suo presente. E non sappiamo quanto ci aiuterebbe, forse, avere accesso a quelle memorie autografe di Manhès che tanti autori affermano di avere consultato, ma sembra non siano mai state pubblicate nella loro forma originaria. Chissà cosa pensava di sé il generale.

È un fatto che Manhès amasse l’Italia, tant’è che continuò a visitarla spesso anche negli anni della pensione, con il beneplacito di Re Ferdinando II di Borbone. Con tutta probabilità, era sinceramente convinto di essere stato un benefattore dei popoli meridionali. Avremmo buon gioco a ricordare che anche il feldmaresciallo Kesselring dichiarò, una volta, che gli italiani avrebbero dovuto dedicargli un monumento; ma questa sarebbe una malignità gratuita. In ogni caso, Manhès il suo monumento l’ha avuto, e anche in Italia, dove la sorte gli riservò di morire nel 1854, durante una visita alla figlia, sposata con un nobile napoletano. È seppellito, assieme alla moglie, nella chiesa di San Domenico a Benevento. La lapide recita:

ALLA MEMORIA DILETTA E AL MESTO DESIDERIODEL CONTE CARLO ANTONIO MANHÈS GENERALE DI FRANCIA
ERGEA PIANGENDO QUESTI VEDOVI MARMI LA FIGLIA MARIA LUISA
POICHÈ A LUI GLORIA DELLA SUA TERRA E DECORO DI QUESTA
CHE GLI ABRUZZI E LE CALABRIE LIBERANDO FECE SICURA
E PRODE FRA’ PRODI DEL PRIMO NAPOLEONE
EBBE MENTE ECCELSA INTEMERATO ANIMO AFFETTI NOBILISSIMI
IL MORBO D’ASIA OLTRE LA MORTE SPIETATO
VIETÒ GIACERE TRA I FAMILIARI AVELLI
PRESSO LA POLVE DEI SUOI CARI
OVE SOLEVA POSARE PENSOSO
E BRAMAVA LA TOMBA

E questa, probabilmente, è da considerarsi la fonte conclusiva sulla sua vita. A chi capitasse di passare davanti al monumento funebre, difficilmente potrebbe venire in mente l’idea che lo stesso uomo di “mente eccelsa, intemerato animo e affetti nobilissimi” sia stato definito anche “un mostro di crudeltà”. Tuttavia, chiuderemo un occhio almeno nel caso dell’iscrizione tombale posta da una figlia al padre defunto. Ci sarà un motivo, dopotutto, se sono sempre i migliori quelli che se ne vanno.

Marcello Donativi