Vocabolario per un massacro

Prefazione a
Perché gli altri dimenticano – Bruno Piazza

Quali parole utilizzare per descrivere l’orrore?

La domanda può sembrare retorica, ma viene spontanea a chiunque si appresti ad affrontare il tema dell’incubo concentrazionario nazista. Un argomento del quale, oggigiorno, si è parlato tanto e nei registri più svariati, ma sempre con un sottile dubbio: qual è il vocabolario più adatto per approcciare una tale mostruosità? Il quesito è vecchio quanto il soggetto, e i primi a porselo furono gli stessi testimoni oculari.

Può sembrare strano, ma nel dopoguerra non ci fu la diffusione che potremmo immaginare di memoriali sui campi di concentramento. O sarebbe meglio dire, a un’iniziale esplosione di testimonianze seguì un periodo di flessione. La liberazione dei primi lager da parte delle truppe alleate, a partire dal gennaio 1945, portò immediatamente alla ribalta dell’opinione pubblica la questione dei campi di lavoro nazisti: le scioccanti immagini rilasciate provocarono un’emozione collettiva fortissima nei confronti di un fenomeno che non era del tutto sconosciuto, ma del quale almeno la gente comune ignorava le proporzioni. A questo si aggiunse l’opera dei pochi sopravvissuti. Una volta liberati, pur con il corpo e l’animo segnato dalla terribile esperienza – o probabilmente proprio per questo, in molti sentirono l’esigenza di mettere su carta quanto avevano vissuto, visto, sentito. Come disse una volta Primo Levi: “Ognuno di noi reduci, appena ritornato a casa, si è trasformato in un narratore”.

Eppure, dopo un iniziale tam-tam mediatico, già nella seconda metà degli anni ’40 l’interesse del pubblico e delle istituzioni iniziò a scemare. Vari fattori si possono portare come spiegazione, non ultime motivazioni geopolitiche legate alla Guerra Fredda e all’inclusione della Germania Ovest nell’Alleanza Atlantica, come se non fosse opportuno insistere troppo sulle malefatte del nuovo alleato. Fatto sta che dei campi di concentramento si parlò sempre di meno, e ciò finì per penalizzare la diffusione delle memorie degli ex-detenuti. Queste furono per lo più escluse dalla grande distribuzione, spesso stampate da piccoli editori e con scarso successo. Tipico è il caso di Se questo è un uomo: il libro fu inizialmente rifiutato da Einaudi e, pubblicato da un’editrice minore, faticò per diversi anni a imporsi all’attenzione del pubblico.

Soltanto a cavallo tra gli anni ’50 e ’60 l’argomento balzò nuovamente agli onori delle cronache. Complici ne furono alcuni celebri processi intentati, con svariati anni di ritardo, ai responsabili dei crimini nazisti, fra cui il cosiddetto Processo di Francoforte che nel 1963 mise alla sbarra alcune ex SS di Auschwitz, ma soprattutto il processo tenuto in Israele ad Adolf Eichmann tra il 1961 e il ’62. Ciò portò a un rinnovato interesse per i crimini nazisti e favorì una più consona diffusione delle testimonianze dei sopravvissuti. Fu così che il libro di Primo Levi, ristampato da Einaudi dopo l’iniziale rifiuto, divenne il successo mondiale che conosciamo, e fu così anche che per Feltrinelli andò in stampa, ormai postuma, la presente opera di Bruno Piazza.

Eppure la storia dei Konzentrationslager nazisti (“campi di concentramento” abbreviato in KL) era di lunga durata e conosciuta dall’opinione pubblica mondiale già da tempo, da ben prima della guerra, da prima dell’Olocausto. La nascita dei campi va fatta risalire all’indomani della stessa presa del potere da parte di Hitler: si potrebbe dire che il lager nasca con il nazismo stesso. Sin dal 1933 il nuovo potere affermatosi in Germania, come la maggior parte dei regimi totalitari, sentì l’esigenza di un sistema concentrazionario per i propri oppositori, veri o presunti. Ciò che contraddistingue in modo drammatico l’esperienza tedesca è lo sviluppo di questo sistema, che da metodo per tenere sotto controllo gli oppositori politici (inizialmente riservato quindi agli esponenti dei partiti di sinistra), si trasformò nel corso del tempo in una spaventosa macchina dedicata all’isolamento, sfruttamento e, infine, eliminazione fisica non solo dei dissidenti ma di ogni categoria considerata nociva per la società: zingari, omosessuali, disabili, “parassiti”, polacchi, prigionieri di guerra russi e, infine, ebrei. Il tutto in una delirante escalation in negativo delle condizioni di vita dei prigionieri, che ne fanno uno dei pochi esempi di sistema schiavistico su base industriale dell’epoca contemporanea.

Da questo punto di vista il campo di Auschwitz ha assunto il ruolo del simbolo, e i motivi sono facilmente rintracciabili. Non solo, infatti, è stato uno dei maggiori campi per estensione e numero di prigionieri, ma anche uno di quelli a recitare una parte nella Soluzione Finale. Da un lato, infatti, la maggior parte dei KL erano luoghi di lavoro forzato nei quali si moriva di fatica, di malnutrizione, di malattia, in cui insomma l’eliminazione era un evento ricorrente ma non direttamente perseguito; dall’altro lato i campi di sterminio costruiti nell’ambito della cosiddetta Operazione Reinhard (come il tristemente famoso Treblinka) erano punti di raccolta in cui si era votati a una morte immediata senza passare per il lavoro coatto. Auschwitz riunì in sé entrambe le caratteristiche: nato come campo di lavoro, fu presto incluso nel piano di genocidio. Attraverso un meccanismo, per la verità approssimativo, di selezione, gli inabili al lavoro erano avviati subito alla morte, mentre gli abili erano destinati a essere sfruttati fino all’ultimo per l’industria tedesca. Un terribile universo parallelo in cui, una volta entrati, si era comunque votati a non fare ritorno.

Si fa risalire all’aprile 1940 l’ordine da parte di Heinrich Himmler di costruire un campo di concentramento nella Polonia occupata. La scelta del luogo ricadde sui dintorni di una cittadina posta alla confluenza dei fiumi Sola e Vistola di nome Oswiecim, la quale, dopo l’occupazione, aveva ripreso l’antico nome tedesco di Auschwitz. Fu preferita ad altre per la vicinanza alla Germania, il buon collegamento ferroviario e la presenza di alcuni edifici già in passato caserme austro-ungariche. Nel giro di un anno iniziarono ad affluire i primi prigionieri, in quel momento per lo più Polacchi, cui si aggiunsero col tempo i prigionieri di guerra Russi e gli Ebrei rastrellati dalle zone più disparate dell’occupazione tedesca. A partire dalla metà circa del 1942 fu avviato anche il regime di sterminio delle “razze inferiori”, che funzionò ininterrottamente fino al tardo autunno del 1944, momento in cui, sotto l’incalzare dell’avanzata sovietica, fu deciso di fermarsi e cancellare le prove. Nel frattempo il campo si era ampliato fino a occupare 40 chilometri quadrati: il più vasto lager conosciuto. Quello che infatti è comunemente noto come campo di Auschwitz era in realtà un articolato complesso di 3 campi principali più numerosi sottocampi: all’originale insediamento (Auschwitz I) si aggiunse nel tempo il campo di Birkenau (Auschwitz II) e quello di Monovitz (Auschwitz III), quest’ultimo più distante dagli altri e posto strategicamente accanto alla fabbrica chimica dell’IG Farben.

Fino al 1943 il fenomeno non riguardò se non marginalmente gli Italiani. Dopo l’8 settembre e l’occupazione tedesca, però, anche i nostri concittadini iniziarono a entrare nel mondo dei KL. Si trattava inizialmente di soldati che avevano rifiutato di arrendersi ai Tedeschi nei convulsi giorni seguiti all’armistizio; a questi si aggiunsero col tempo gli aderenti alla Resistenza o genericamente i sospettati di cospirazione, ma anche un certo numero di delinquenti comuni già presenti nelle prigioni italiane e consegnati alla Germania. Secondo recenti stime, i nostri connazionali deportati nei vari campi sparsi tra la Germania e i territori occupati furono in tutto tra i 30.000 e i 40.000. Fra questi, 6800 erano ebrei arrestati dalle SS nel corso dei rastrellamenti nei ghetti o sulla base di delazioni: solo in 837 fecero ritorno a casa.

Il più celebre è senza dubbio Primo Levi. Unitosi poco più che ventenne alla Resistenza, Levi fu arrestato in Valle d’Aosta a fine 1943. Nel febbraio del 1944 fu deportato nel campo di Auschwitz III (Monovitz), dove restò fino alla liberazione nel gennaio del ’45. Dopo il suo arresto, si era dichiarato ebreo prima che partigiano: in seguito a ciò, nel campo di concentramento fu registrato come “ebreo” e non come “politico”, il che equivaleva a una condanna a morte, di poco dilazionata dal fatto di essere ancora giovane e abile al lavoro. Se ebbe salva la vita, ciò fu dovuto alle sue conoscenze in chimica, che gli permisero di essere alla fine assegnato a un lavoro meno manuale e logorante.

Ai primi di agosto del 1944, mentre Levi si trovava a Monovitz, arrivava a Birkenau, a sette chilometri di distanza, un triestino di nome Bruno Piazza. Vari fattori lo differenziavano da Primo Levi. L’età innanzi tutto: Piazza, nato nel 1889, aveva ormai 55 anni, era insomma un uomo di mezza età, sposato e con figli, laddove Levi era ancora un giovane e, per sua stessa ammissione, inesperto. Poi il rapporto con la scrittura: mentre Levi, studente di chimica, aveva alle spalle qualche scarno esperimento letterario (non più di un paio di racconti), Piazza, avvocato, negli anni aveva portato avanti, anche se in modo velleitario, una discreta attività di pubblicista (recensioni teatrali, corrispondenze politiche) e scrittore (alcune poesie e un romanzo). Colpiti entrambi dalle persecuzioni razziali successive al 1938 e preoccupati dal precipitare degli eventi successivi all’occupazione nazista, avevano compiuto però scelte differenti: Levi prese la via dei monti per farsi partigiano, mentre Piazza, non apertamente un oppositore, tentò senza successo la fuga all’estero.

Eppure, al momento dell’arresto, fu Piazza e non Levi a essere categorizzato come “politico”: uno di quei paradossi della vita di cui soltanto col senno di poi si riesce a riconoscere il lato fortunoso. Lui che non aveva scelto l’opposizione aperta al fascismo, sulla base di fragili elementi fu accusato di antifascismo, e conseguenza ne fu che, una volta deportato, poté portare sulla camicia il simbolo rosso dei detenuti politici. Questo significava passare in secondo piano nelle selezioni per le camere a gas: un evento casuale che gli salverà la vita.

Per il resto, Piazza condivise la vita durissima di tutti i detenuti, come ben descrive nelle sue memorie: il lavoro estenuante, la fame, il freddo e le ripetute umiliazioni.

Ad esempio l’iniziazione. Ciò che colpisce in tutte le testimonianze, e Piazza non fa eccezione, è la descrizione del primo impatto con il lager e i suoi abitanti. Come un’improvvisa discesa agli inferi, il detenuto viene subito sottoposto a una serie di operazioni allo scopo di annientare la sua personalità: il furto dei beni personali, la privazione dei vestiti, la rasatura, il tatuaggio del numero sul braccio. Il tutto davanti a quelli che detenuti sono già da tempo, nelle cui fattezze il nuovo arrivato può scorgere la visione di come diverrà a breve: un anonimo scheletro vestito di stracci. Indicativo è un episodio: Bruno Piazza, ingenuamente, il primo giorno si lamenta dei calzoni ricevuti, secondo lui troppo stretti. Non importa, gli viene risposto:
tra venti giorni al massimo ti saranno larghi
.

Nei giorni successivi il novizio impara le regole, scritte e non scritte, del lager. I riti che ne scandiscono la giornata (le interminabili attese al gelo durante la conta dei prigionieri), le gerarchie tra prigionieri (tra cui il famigerato sistema dei kapò), i mille trucchi per garantirsi la sopravvivenza (ad esempio evitare la doccia mattutina o farsi assegnare un lavoro meno usurante).

Quanto più terribile, con il tempo il detenuto si abitua. La vita precedente diventa un ricordo sbiadito, cui al massimo aggrapparsi di tanto in tanto; ciò che si ha davanti agli occhi è invece l’incubo quotidiano, una selvaggia selezione naturale, la distruzione di qualsivoglia aspetto positivo possa presentare l’esistenza:

Nel campo di concentramento non era mai dato di ve­dere nulla di buono, di grazioso, di gentile. Per mesi e mesi non ho veduto un fiore, non ho udito una parola gentile, non ho toccato un oggetto morbido, non ho sen­tito un profumo, non ho gustato un cibo appetitoso.

In questo mondo chiuso e privo di alcunché di grazioso e gentile, la morale è ribaltata, il concetto stesso di bontà è controproducente. Significativo è l’episodio del capo baracca che procura a Piazza un paio di calzoni nuovi. Per ringraziarlo, l’autore gli dice che è un buon uomo. Ne riceve questa risposta:

“Dimmi quello che vuoi, e ti scuso. Ma non dirmi che sono un buon uomo. Essere buoni in questo campo significa mancare al proprio dovere. Se i nazisti vengono a sapere che qualcuno mi trova buono, è certo che perdo il posto e l’incarico e mi mandano a lavorare nelle miniere. Dunque, quando parli di me, cer­ca di trovarmi cattivo e malvagio. È il miglior modo per ringraziarmi.”

E in questo forse conseguono la propria vittoria i carnefici: nell’aver reso le vittime simili a loro.

Quest’opera è stata scritta nello spazio di un mese circa. Prende le sue prime mosse in alcuni appunti sparsi compilati dall’autore mentre era ancora ad Auschwitz, accudito dai Russi dopo la liberazione. Successivamente, tornato in Italia, Piazza lavorò alacremente alla compilazione del memoriale, spinto dall’urgenza di fissare i ricordi, o come avvertendo il presagio di non avere molto ancora a disposizione. Fece infatti appena in tempo a concludere il libro, che non vedrà mai stampato: un infarto lo portò via nel 1946. Era sopravissuto appena un anno al suo ritorno a casa.

A noi è piaciuto. È un racconto scarno, essenziale. Non ricama troppo, Piazza non ne aveva né l’intenzione né probabilmente il talento. Anzi, sarebbe stato dannoso allo scopo della sua scrittura.

In questo, infatti, troviamo forse risposta alla domanda che ci siamo posti nelle prime righe. Quali parole utilizzare per descrivere l’orrore? Piazza, come altri con lui, ci suggerisce: le parole della semplicità. Messi davanti a eventi talmente enormi, scopriamo inutile l’ampollosità, fuori luogo il bello stile, insufficienti le metafore. Il modo migliore per descrivere l’orrore è dunque riportarlo nella sua asciuttezza, nella banalità di cui parlava Hannah Arendt. Soltanto così è pensabile di tenere viva la memoria, che purtroppo sbiadisce col tempo, si annoia alla retorica, ma non può restare indifferente davanti al puro racconto dei fatti, al ricordo – per usare le parole di Primo Levi – che questo è stato. Perché gli altri dimenticano.

Marcello Donativi