Dentro e fuori i confini dell’umano

Prefazione a
Mauthausen città ermetica – Aldo Bizzarri

Mauthausen: a questo nome la storia ha assegnato un’eco sinistra. Pronunciarlo significa al giorno d’oggi evocare alcune delle più alte vette mai raggiunte dalla sofferenza umana: prigionia, degradazione, morte. Eppure, di per sé, non è altro che il nome di un piccolo comune austriaco. Un caratteristico borgo sulle rive del Danubio, a circa venti chilometri da Linz, che attualmente fa poco meno di 5.000 abitanti. Sin dall’età antica la sua posizione all’incrocio di due strade e la vicinanza a una cava di granito lo avevano reso un punto di passaggio, di scambi commerciali. Così nel medioevo divenne sede di un mercato e barriera doganale. Maut in tedesco significa pedaggio: maut-haus si tradurrebbe più o meno come luogo di pedaggio.

Fin qui il borgo avrebbe potuto confondersi tra i numerosi centri abitati dell’Alta Austria, forse diventare una località turistica o magari restare un tranquillo centro di provincia senza particolare interesse. Caso ha voluto, invece, che il suo nome fosse associato a uno dei più famosi centri di detenzione del XX secolo.

Una prima avvisaglia si ebbe durante la Prima Guerra Mondiale, quando a est della cittadina fu costruito un campo di concentramento dell’allora Impero Austro-Ungarico. Si trattava di un semplice complesso di baracche circondate dal filo spinato, allo scopo di ospitare i prigionieri di guerra dell’Intesa, più che altro italiani, serbi e russi, in seguito in minor parte anche inglesi e americani. Parliamo di un contesto in cui i prigionieri erano in qualche misura tutelati da accordi internazionali e dal sostegno della Croce Rossa. Ciò non toglie che questi accordi non fossero sempre rispettati e le condizioni di vita nel campo fossero piuttosto dure; situazione che andò peggiorando negli ultimi anni di guerra, quando la penuria di rifornimenti che affliggeva in generale l’esercito austro-ungarico ricadde a cascata anche sui campi di concentramento: già allora a Mauthausen si moriva letteralmente di fame. Tuttavia, con la fine del conflitto il campo fu smantellato.

Ma era destino che questo luogo dovesse legare il proprio nome a quello dei campi di prigionia. La vicenda riprese esattamente venti anni dopo, nel maggio del 1938, quando una coppia di uomini in uniforme nera iniziò a perlustrare i dintorni di Mauthausen. Erano partiti verso la metà del mese, facendo tappa in un primo momento nei pressi del confine con la Cecoslovacchia, per poi dirigere le loro ricerche in Austria.

Molto era cambiato nel frattempo. L’Impero Austro-Ungarico era crollato nel 1918 sotto la spinta dei vari separatismi etnici, lasciando il posto a una Repubblica Austriaca minuscola rispetto ai suoi fasti secolari. L’imporsi del nazionalsocialismo nella vicina Germania, però, fondato tra l’altro da un austriaco, aveva portato all’idea di riunificare (e in seguito espandere) lo spazio germanico, nel quale l’Austria non poteva avere un ruolo secondario. Con la cosiddetta Anschluss la piccola repubblica cessava di esistere, per essere forzatamente inglobata nella Germania nazista.

I due uomini erano infatti ufficiali delle SS in missione per conto di Heinrich Himmler. Qualcosa in comune tra loro l’avevano: una stazza imponente, l’anno di nascita (il 1892) e la coincidenza di provenire entrambi da zone di confine, l’Alsazia e la Lorena, che al momento della loro nascita erano territorio tedesco e col trattato di Versailles erano passate alla Francia. Ma le somiglianze si fermavano qui. Uno era di umili origini e per buona parte della propria vita era stato una specie di bullo, rissoso e pieno di frustrazioni. Volontario nella Grande Guerra, aveva in seguito avuto grandi difficoltà a reinserirsi nella vita civile, anche a causa del suo fanatico nazionalismo. Negli anni ’20 pareva rassegnato a un noioso lavoro amministrativo in fabbrica, quando l’emergere del partito nazista gli aveva offerto un’inaspettata occasione di riscatto. Arruolatosi dapprima nelle SA e in seguito nelle SS, in pochi anni aveva bruciato le tappe. Nel 1938 Theodor Eicke poteva vantare un notevole curriculum all’interno del regime nazista: si era occupato dell’esecuzione di Ernst Röhm, il capo delle SA arrestato durante la Notte dei Lunghi Coltelli, ma soprattutto era stato comandante del campo di concentramento di Dachau, il primo lager nazista della storia, e la sua gestione aveva e avrebbe fatto da modello per tutti quelli successivi.

Il secondo uomo non aveva un passato così prestigioso, ma stava lentamente conquistando il suo spazio. A differenza di Eicke veniva da una famiglia della media borghesia e aveva fatto carriera militare in marina. Dopo la guerra non aveva avuto problemi a farsi integrare nella neonata marina della Repubblica di Weimar, dove, più che doti di tipo militare, aveva potuto sfoggiare abilità amministrative e gestionali. E in questa veste si era segnalato anche all’interno del partito nazista, cui aveva aderito sin dai primi anni. La svolta avvenne però quando, poco dopo la conquista nazista del potere, conobbe Himmler, il quale restò favorevolmente colpito dalle sue doti manageriali, tanto da affidargli incarichi sempre più importanti nella gestione finanziaria delle SS. Se Eicke era l’esperto in campi di concentramento, Oswald Pohl era il contabile, l’affarista, il manager.

I due, perciò, si completavano a vicenda per la missione loro affidata, importante ma tutt’altro che avventurosa. Chi si aspetta che un ufficiale nazista, come in certi brutti film, passi tutto il tempo a torturare e uccidere, resterebbe deluso. In effetti, prima li abbiamo rappresentati mentre si aggirano nel circondario di Mauthausen nella divisa nera delle SS. Ma questo non possiamo saperlo: per quello che era il loro compito si sarebbero potuti presentare anche in doppiopetto. Il loro era un viaggio d’affari: il risultato che ottennero fu di siglare l’acquisto della vicina cava di granito da parte di un’azienda chiamata DEst.

Qui bisogna fare un piccolo passo indietro. Già dal 1933, all’indomani della presa del potere da parte dei nazisti, era stato messo in piedi in Germania un sistema concentrazionario, nell’immediato per l’internamento degli oppositori politici, soprattutto socialisti e comunisti. In quei primi anni il sistema dei KL (abbreviazione di Konzentrationslager), in gestione alle SS di Heinrich Himmler, aveva iniziato ad accogliere anche i delinquenti comuni, secondo una logica di pulizia della società dai suoi elementi pericolosi. Siamo ancora lontani, anche se non di molto, dal periodo in cui i vari campi sparpagliati tra la Germania e i territori occupati avrebbero imprigionato milioni di persone per la loro semplice appartenenza a una categoria ritenuta nociva, fosse etnica o religiosa: in quella prima fase il presupposto era quasi sempre il compiere, in modo reale o potenziale, un reato o un atto ostile verso il regime. Ciò che era già attivo era il concetto che questa detenzione potesse sfuggire a qualsiasi norma di legge: l’arresto era arbitrario, in assenza di processo, e la durata della detenzione indeterminata e a discrezione delle SS; il prigioniero, perso ogni diritto, diventava un oggetto nelle mani dei carcerieri, che ne potevano fare ciò che volessero, compreso ucciderlo.

Inizialmente non era previsto un sistema consolidato di lavori forzati: l’obiettivo dei campi era il semplice allontanamento degli individui dalla società. Nella seconda metà degli anni ’30, tuttavia, anche grazie all’opera di Pohl per ristrutturare la gestione finanziaria delle SS, si era fatta strada l’idea di sfruttare l’ingente massa di detenuti come forza lavoro gratuita. L’occasione era ghiotta: i progetti di sviluppo della Germania nazista aprivano nuove opportunità di affari, e in particolare le opere architettoniche progettate da Albert Speer avevano un urgente bisogno di materiali edili, che potevano essere prodotti a buon mercato sfruttando il lavoro di una massa di schiavi. Per il resto ci avrebbe pensato la propaganda a dipingere questo come un sistema virtuoso di rieducazione, attraverso il lavoro, degli elementi nocivi. Questo spiega perché in quegli anni Himmler ambisse ad ampliare il numero dei campi e ciò indipendentemente dalla reale necessità di arrestare delle persone.

Nel 1937 i campi di concentramento erano ancora soltanto tre, Dachau, Saschenhausen e Buchenwald, e i detenuti stimati intorno agli 8.000. Himmler, però, progettava di raggiungere presto il numero di 20.000. L’occasione gli sarà fornita dall’espansionismo tedesco: la conquista di nuovi territori significava anche la possibilità di arrestare un ingente numero di oppositori, reali, potenziali o immaginari che fossero.

L’anno della svolta fu il 1938. L’annessione dell’Austria avvenne a marzo; già il 1° aprile partiva il primo convoglio che trasportava nuovi detenuti austriaci, per il momento a Dachau. Nell’autunno dello stesso anno la Germania avrebbe annesso i Sudeti, con conseguente deportazione di prigionieri cechi. Si rendeva dunque necessario aumentare il numero di campi: fu in questo periodo che furono aperti, ad esempio, quelli di Flossenbürg e Ravensbrück. Ma già all’indomani dell’Anschluss la direzione affarista intrapresa da Himmler si mosse con rapidità: a fine aprile ’38 era fondata la DEst (Deutsche Erd- und Steinwerke GmbH), un’azienda promossa da Pohl, di proprietà delle SS, dedicata alla produzione e vendita di laterizi e materiali da costruzione. Ecco, dunque, che a maggio Eicke e Pohl iniziarono a ispezionare il territorio del Reich alla ricerca di cave di pietra accanto a cui costruire nuovi campi di concentramento.

Completato l’acquisto, agli inizi di agosto arrivarono a Mauthausen i primi detenuti, un gruppo di 300 delinquenti comuni smistati da Dachau. Il loro primo compito fu quello di costruire fisicamente il campo, utilizzando la stessa pietra della cava. Il lager assunse così quel suo aspetto caratteristico, leggermente diverso dagli altri, più simile a una fortezza medievale: chiuso per tre lati da un muro in pietra, con torri alte e tozze e un ingresso detto, per il suo stile vagamente asiatico, Porta mongola. I delinquenti comuni che lo costruirono erano dipinti dalla propaganda come pericolosi criminali; in realtà spesso si trattava soltanto di piccoli borseggiatori, truffatori, colpevoli di reati minori. Erano contraddistinti dal triangolo verde sulla camicia e per loro, nucleo originale di prigionieri, quei primi tempi sarebbero stati particolarmente duri, costretti com’erano dall’assenza di strutture a dormire in capanne improvvisate, esposte a ogni intemperie, e compiere il faticoso lavoro di erigere i nuovi edifici. Tuttavia, col tempo avrebbero avuto la loro rivincita: i triangoli verdi avrebbero infatti costituito anche il primo nucleo di kapò, istruiti dalle SS a controllare e vessare gli altri detenuti in cambio di condizioni di vita leggermente migliori.

Gli altri detenuti, già. Negli anni successivi Mauthausen si popolò per lo più di dissidenti veri o presunti, via via pescati dalle varie aree occupate dalla Germania tra il 1938 e il 1944, il che procurò al lager la fama di campo dei politici per antonomasia. I più numerosi erano i polacchi e i sovietici; tra le altre nazionalità spiccava quella spagnola, nutrita da un certo numero di repubblicani scampati alla guerra civile e catturati, per esempio, nella Francia occupata. L’altra fama che si procurò fu quella di uno dei campi con il più alto tasso di mortalità dell’intero sistema dei KL, almeno fino alla fondazione di Auschwitz. Ciò era dovuto principalmente alla durezza dei lavori forzati: chi era destinato alla cava di pietra era costretto a trasportare quotidianamente, con mezzi di fortuna, pesanti blocchi di granito, il tutto in una condizione di grave malnutrizione e sotto i costanti maltrattamenti di kapò e SS. Tristemente famosa divenne la cosiddetta scala della morte, cioè i circa 180 gradini che portavano dalla cava alla superficie, teatro di fatica, percosse, uccisioni ma anche suicidi.

La composizione etnica di Mauthausen, verso la fine della guerra, mutò leggermente a causa di due avvenimenti. Da una parte l’occupazione tedesca dell’Alta Italia nel settembre 1943, con i suoi scontri dapprima con drappelli dell’esercito regolare e in seguito con le bande armate volontarie della Resistenza, spalancò le porte del lager anche ai nostri concittadini, fino a quel momento risparmiati. Si stima che nel complesso siano stati intorno agli 8.000 gli italiani deportati a Mauthausen, di cui sopravvisse circa un quarto. Il secondo avvenimento fu l’occupazione tedesca dell’Ungheria nel marzo 1944, che fece affluire nel campo un ingente numero di persone arrestate dalla Gestapo.

Tra loro, vi era un uomo che apparteneva a entrambe le categorie. Era italiano, ma era stato arrestato in Ungheria. Il suo nome era Aldo Bizzarri.

Perché si trovasse in quel momento a Budapest lo sappiamo; quello che la storia non ci ha consegnato sono, invece, le ragioni del suo arresto. Lo stesso autore, d’altra parte, non si è mai sbilanciato troppo, né in quest’opera né in altri scritti, e il mistero si infittisce se si scorrono i suoi scarni dati biografici, dai quali risulta la figura di un intellettuale tutt’altro che in contrasto con la politica del tempo.

Bizzarri era nato a Roma nel 1907; intorno ai vent’anni era stato nel giro della rivista 900, fondata da Bontempelli e Malaparte, e le sue frequentazioni includevano personalità come Alberto Moravia, Margherita Sarfatti e Gian Gaspare Napolitano, assieme al quale nel 1928 fondò una rivista, di breve vita, chiamata I lupi. Si trattava di circuiti letterari non avversi, se non proprio favorevoli, al fascismo. E infatti in quegli anni Bizzarri appare come un intellettuale perfettamente integrato nel regime. Dopo la pubblicazione di un romanzo intitolato La traccia nel sole (1929), negli anni seguenti intraprese una carriera accademica che lo portò a girare il mondo come direttore di vari istituti di cultura italiana. Negli anni ’30 visse a Santiago nel Cile, Rennes, Lisbona, affiancando al lavoro di direttore la scrittura di opere non più narrative ma saggistiche, su varie figure della storia culturale italiana (Dante, Vico), ma anche su argomenti di politica. Ancora una volta, a fatica si scorgerebbe in queste opere un qualche motivo che potesse portarlo a essere sospettato di opposizione: nei confronti del fascismo dimostrava di aderire al progetto corporativista, mentre verso il nazismo, al limite, dimostrava una leggera, appena intuibile distanza di vedute.

Nel marzo del 1944 Bizzarri si trovava a Budapest presso il locale istituto di cultura italiana. Il 30 del mese, pochi giorni dopo l’occupazione tedesca dell’Ungheria, fu arrestato dalla Gestapo con l’accusa di attività antinazista. Come detto, non sappiamo molto a parte il capo di accusa, non siamo quindi in grado di giudicare se fosse fondato o meno, e lo stesso autore è reticente a riguardo. Robert Gordon suggerisce l’ipotesi che dietro potesse esserci una generica diffidenza dei nazisti nei confronti di figure chiave dell’ex alleato fascista, viste ormai come una ipotetica minaccia.

Quale ne fosse la ragione, a maggio Bizzarri fu trasferito nel campo di Mauthausen, dove restò per un anno, fino alla liberazione del lager da parte delle truppe americane nel maggio 1945. Come nel caso di Primo Levi, ciò che gli salvò la vita fu l’essere assegnato a mansioni meno pesanti della maggior parte dei detenuti; come Levi dovette compiere un tortuoso viaggio per tornare in Italia (anche se Bizzarri era in effetti più vicino); ancora come Levi, appena tornato a casa sentì il bisogno di esorcizzare la terribile esperienza scrivendo a riguardo. Era stato, in fondo, lo stesso Primo Levi a dire una volta: “Ognuno di noi reduci, appena ritornato a casa, si è trasformato in un narratore”.

Dopo la guerra, e fino alla sua morte prematura nel 1953, Bizzarri lavorò come giornalista e sceneggiatore cinematografico. Si tenne lontano dalla politica attiva, anche se ebbe una certa vicinanza a circoli moderati come la rivista Risorgimento Liberale. Ebbe però il tempo di produrre alcuni scritti sulla sua esperienza nei lager. Sono tre le opere sull’argomento: un breve articolo intitolato Come si torna in Italia, pubblicato già nell’agosto 1945, sorta di sua personale versione de La Tregua; il presente saggio Mauthausen città ermetica, pubblicato nel 1946 ma con la dicitura “Settembre 1945”, e infine un romanzo, Proibito vivere, del 1947.

Mauthausen città ermetica non si pone l’obiettivo di raccontare l’esperienza personale dell’autore. A quella, come abbiamo accennato, sono dedicate poche righe nella conclusione. Al contrario, l’intento è quello di fornire una sorta di saggio sulla vita nel campo di concentramento, frutto delle testimonianze raccolte da compagni di prigionia di ben più lunga esperienza di Bizzarri. Lo scopo è quasi documentaristico, fornire cioè una testimonianza che sia completa (compreso un lungo elenco di nomi di detenuti), ma ciò non toglie che ci fosse anche, ovviamente, un motivo personale; per usare le sue stesse parole: “Scrivere questo volumetto è stato per l’autore come liberarsi da un incubo: una catarsi per la memoria ossessionata”.

Il quadro che ne deriva, in modo non dissimile da altre testimonianze di sopravvissuti, è quello del lager come un mondo parallelo (una città ermetica, appunto, impermeabile all’esterno), una volta entrati nel quale le regole consuete del vivere sono stravolte, la morale comune cancellata, per fare posto a un girone infernale fatto di violenza e morte. Significativo è un dettaglio raccontato nel primo capitolo, non a caso intitolato Oltre i confini dell’umano. Una volta scesi dal carro bestiame, i nuovi prigionieri devono affrontare sei chilometri di salita per arrivare alle porte del campo. A circa metà strada vi è un’antica cappella con una immagine di Cristo; qualche incauto prigioniero accenna a una riverenza o un segno della croce; in tutta risposta, le SS lo prendono a bastonate. Ecco il benvenuto nel mondo parallelo, in cui non è tollerata alcuna fede, alcun gesto di pietà o sentimento.

Il resto lo lasciamo scoprire al lettore. Bizzarri, con quanto distacco fosse possibile a una persona che aveva vissuto quegli avvenimenti, passa in rassegna tutte le caratteristiche del lager: l’organizzazione, o sarebbe meglio dire la disorganizzazione, le gerarchie, i lavori forzati, le punizioni, in definitiva tutta la serie di assurdità che caratterizza un tale micromondo basato sulla sopraffazione. E cerca di non fermarsi qui, ma di investigare anche le ragioni che possano avere portato a un livello di crudeltà forse mai sperimentato nella storia, individuandole non nel capriccio di pochi pazzi o delinquenti, né tantomeno nelle caratteristiche intrinseche del popolo che l’ha causata, ma nella stortura di una politica che si fa religione e, inseguendo in modo fanatico un inesistente ideale di purezza, rende gli uomini disposti a passare sopra qualunque sentimento di empatia. Secondo Bizzarri i nazisti non erano semplici criminali: erano mistici, e questo è alla base dei loro delitti.

Come detto, il campo di Mauthausen fu liberato dall’esercito statunitense agli inizi di maggio del 1945. L’operazione fu accompagnata da una brutta, ma comprensibile, esplosione di violenza nei confronti delle SS e dei kapò, spesso linciati a morte da quei pochi detenuti che ancora ne avevano le forze. Franz Ziereis, il comandante del campo, morì a seguito delle ferite riportate durante la cattura; il suo corpo fu appeso al filo spinato e oltraggiato dai sopravvissuti.

Ma non mancarono anche episodi edificanti, come uno di quelli che chiude il libro e fa da ideale contraltare all’aneddoto sul dipinto di Cristo. Dopo la liberazione del campo, i prigionieri restano ancora per qualche tempo lì, accuditi per quanto possibile dai soldati americani; tuttavia, le loro condizioni sono tali che in molti continuano a morire. I compagni sopravvissuti, allora, raccolgono le salme e per la prima volta da quando sono a Mauthausen possono onorarne la memoria: li pongono in bare di fortuna, le coprono di fiori e improvvisano un piccolo corteo funebre.

L’incubo era finito: si ritornava dentro i confini dell’umano.

Marcello Donativi