Il re di Lagopesole

Prefazione a
Come divenni brigante – Carmine Crocco

“Se io ammettto una organizzazione, non sarò più nulla; mentre restando in questi boschi sono onnipotente, nessuno li conosce meglio di me: se entriamo in campagna, questo non accadrà più. Del resto i soldati mi hanno nominato generale, ed io ho eletto i colonnelli e i maggiori e gli altri ufficiali, i quali nulla più sarebbero, se cadessi. Del resto io non sono stato che caporale, lo che vuol dire che di cose militari non me ne intendo! Dal che ne segue che non avrò più preponderanza il giorno in cui si agirà militarmente.”

Queste parole di Carmine Crocco furono annotate sul suo diario da José Borjès, che evidentemente doveva esserne rimasto particolarmente impressionato.

La vicenda è nota, ma giova ripercorrerla brevemente.

All’indomani dell’unificazione italiana non si erano del tutto spente le speranze, da parte del governo borbonico in esilio, di riconquistare il regno perduto con un’audace manovra militare. Decine di comitati legittimisti, sia in Italia che all’estero, lavoravano a questo scopo, più o meno coordinati dalla corte reale a Roma. Questi erano particolarmente interessati alle numerose bande che si formavano spontaneamente nel Mezzogiorno, composte in vario modo da soldati borbonici sbandati, garibaldini delusi, disertori del neonato esercito italiano, contadini: quello che passerà alla storia sotto il nome di Brigantaggio.

L’idea dei legittimisti era quella di strutturare in modo più organizzato le bande, fornendo loro uno Stato Maggiore e facendone un vero e proprio esercito popolare, alla stregua di quanto era successo nel 1799 con la spedizione del Cardinale Ruffo: il loro sogno era di ripetere l’impresa disperata della Santa Fede.

Mancava però un capo. E qui entra in scena José Borjès.

Si trattava di una sorta di eroe del legittimismo. Nato in Catalogna, si era distinto durante la guerra civile spagnola degli anni ’30 militando tra le fila dei carlisti, i sostenitori della monarchia assoluta riportata sul trono dal Congresso di Vienna. Nel 1861 a Marsiglia fu avvicinato dal comitato borbonico locale guidato dal generale Clary, il quale decise di affidargli il comando della riconquista del Regno delle Due Sicilie. Sogni? Probabile, come i fatti dimostreranno. Con un’azzeccata definizione Gianni Custodero lo ha definito “il generale di un esercito fantasma (…) arruolato da un regno che non c’è più”.

A Borjès viene conferito un incarico ufficiale, con tanto di istruzioni sul numero dei battaglioni che dovrà formare, sul nome da assegnare loro e addirittura sulla foggia delle divise. Dopo una tappa a Malta, nel settembre 1861 sbarca in Calabria con appena sedici uomini, sorta di Pisacane al contrario. E il paragone calza anche per l’esito della spedizione.

Sin da subito le cose non vanno per il verso giusto: la popolazione è diffidente, gente se ne arruola poca, difficile instaurare un contatto con le bande. La Calabria, evidentemente, non è più quella del 1799.

Ma Borjès ha in mente di raggiungere in qualche modo la Basilicata, dove ha sentito parlare della banda più organizzata e potente, una delle poche che ha dato vero filo da torcere ai Piemontesi, ed è riuscita persino a riconquistare (per breve tempo) interi centri abitati: la banda di Carmine Crocco della famiglia detta dei Donatelli, con base nel bosco di Lagopèsole.

L’incontro fra i due avviene in ottobre. Ma non scatta esattamente la molla della simpatia.

In quel momento Borjès dovette rendersi conto della complicata essenza del brigantaggio, e di quanto fosse impossibile ricondurlo a una mera guerriglia di liberazione: la frase di Crocco che riporta nel diario è più che significativa sotto questo punto di vista.

Tra i due personaggi passava il mondo intero: difficile che si capissero un nobile spagnolo con la testa piena di avventure cavalleresche (la stampa satirica amava ritrarlo come Don Chisciotte) e un pastore lucano vissuto sempre a mezzo tra la legalità e il banditismo, che aveva conosciuto il carcere e indossato più d’una divisa, da quella borbonica a quella garibaldina.

Borjès, come da istruzioni, voleva trasfomare la banda in un esercito regolare: questo implicava disciplina, tattica militare e soprattutto scendere in campagna: attuare cioè un’autentica manovra bellica, con battaglie campali e conquista di città. Crocco stette ad ascoltarlo per un po’, cercò di sopportarne l’autorità e in un caso – con buon esito – ne seguì persino il consiglio, sbaragliando i bersaglieri in uno scontro in campo aperto. Ma alla fine decise di abbandonare la partita, sia perché dubbioso delle reali possibilità di successo, sia perché timoroso di perdere in questo modo il piccolo regno personale che si era creato tra i boschi.

Lo spagnolo aveva una chiara idea dell’unico modo in cui fosse possibile riconquistare il regno; il lucano una chiara idea di come questo non fosse che un’utopia.

 Il 27 novembre avviene la rottura definitiva. Crocco annuncia che d’ora in poi farà per sé e abbandona Borjès, non prima di averlo privato della maggior parte della armi.

 Borjès, con soli 24 compagni, intraprende una marcia disperata nel tentativo di riparare nello Stato Pontificio. È furioso: intende presentarsi al Re e denunciare come quelli che ne difendono la causa sono in realtà “miserabili e scellerati” e Crocco soltanto “un sacripante”; pretende di ritentare la sorte solo ad alcune precise condizioni e maggiori aiuti materiali. L’impresa della fuga è quasi senza speranza: i venticinque vagano per boschi, devono nascondersi a ogni passo, mai fidarsi di alcuno; eppure sono a un passo dalla salvezza. Ma a Tagliacozzo, a poche miglia dalla frontiera, vengono intercettati e catturati dai Bersaglieri.

Borjès è fucilato come un delinquente comune, assieme a tutti i suoi compagni di sventura. Gli viene trovato addosso il diario, che è tuttora conservato presso l’Archivio Storico del Ministero degli Esteri.

 Ci è piaciuto partire da questo episodio, perché offre un punto di vista esterno alla vicenda della banda di Crocco. È un piccolo tassello per cercare di venire a capo dell’annoso problema di come porsi davanti al fenomeno del Brigantaggio meridionale.

A quasi 150 anni da quegli avvenimenti, infatti, sembra che ancora sia difficile affrontare con equilibrio il tema: troppi sono a tutt’oggi i coinvolgimenti emotivi.

Da un lato perdura la versione “ufficiale” elaborata in quello stesso periodo dai liberali italiani e fomentata dalla stampa nostrana e straniera, che interpreta il brigantaggio come un semplice caso di delinquenza organizzata, radicato da secoli nelle regioni meridionali e tutt’al più fomentato da alcuni errori compiuti dalla nuova classe dirigente dell’Italia unita. Dall’altro lato un certo meridionalismo arrabbiato ha preso a vedere nei briganti delle autentiche forze partigiane, combattenti una guerriglia di liberazione dall’invasione straniera. Si veda, a mo’ di esempio, il film di Pasquale Squitieri del 1999, intitolato “Li chiamarono briganti”, con Enrico Lo Verso nel ruolo di Crocco. Una pellicola che a noi personalmente è piaciuta poco: troppo retorica, quasi un’agiografia.

Carmine Crocco, inoltre, è una di quelle personalità storiche in cui ognuno, a seconda delle necessità, travasa ciò che vuole. Se lo si vuole presentare come un fedele suddito neoborbonico, si sottolinea il suo passato di soldato di Ferdinando II, tacendo il fatto che fosse stato arruolato contro la sua volontà e che quella vicenda sia terminata con una condanna per aver ucciso un commilitone. Se si preferisce usarlo come esempio delle deluse speranze garibaldine, si pone l’accento sulla sua esperienza in camicia rossa, senza enfatizzare troppo la promessa di amnistia che poteva averlo spinto a combattere quella guerra. Si desidera un Crocco paladino del legittimismo? Sotto con gli aneddoti sulla conquista di Venosa a suon di bandiere gigliate. Lo si preferisce criminale comune? Via a sottolineare l’attività di rapina ed estorsione praticata per anni. Si cerca di farne un prodotto dell’ingiustiza sociale? Esistono allo scopo diversi racconti sulla sua infanzia infelice: basta evitare di accorgersi che possono essere stati gonfiati a scopo di giustificazione.

 Ma non si rende giustizia a una figura come Crocco né dipingendolo come un Innominato, né come un Robin Hood.

Insomma, chi era veramente Carmine Crocco?

La domanda se la ponevano probabilmente anche i contemporanei, e a questo parve dare una risposta nel 1903 la pubblicazione della sua autobiografia.

A quell’epoca Crocco era un anziano che languiva in carcere da decenni; il brigantaggio, ormai debellato, era stato consegnato al giornalismo sensazionalistico e alla letteratura di appendice. Non mancavano i primi studi a riguardo, ma era ancora molto di là da venire una riflessione seria sulle motivazioni sociali e soprattutto politiche delle bande. L’autobiografia di Crocco poteva essere una prima testimonianza veritiera e chiarificatrice sul fenomeno. Eppure quando comparve in molti storsero il naso: l’autenticità del documento pareva quantomeno dubbia. Noto è il giudizio sprezzante di Benedetto Croce, che lo riteneva senza mezzi termini un falso. E non passò molto tempo che un tale Basilide Del Zio, conterraneo di Crocco, pubblicò una controbiografia per rispondere a quella che riteneva essere l’apologia di un criminale.

Si sapeva il testo essere stato raccolto da un capitano dell’esercito di nome Eugenio Massa, che aveva spesso visitato il brigante in carcere, ne aveva raccolto la testimonianza e infine curato quello che noi oggi chiameremmo editing; un po’ come accade al giorno d’oggi con certe autobiografie di personaggi celebri. E qui sorgeva il dilemma: quanto ci aveva messo di suo? O addirittura aveva scritto il libro dalle fondamenta? Troppi erano gli elementi sospetti, a cominciare dal fatto che un pastore meridionale considerato istruito solo per aver imparato, a differenza degli altri, a leggere e scrivere citasse con disinvoltura Victor Hugo e Dante. E questo nonostante Massa assicurasse che Crocco in carcere si fosse dedicato alla lettura e allo studio.

Ma i dubbi non venivano – e vengono tuttora – generati esclusivamente da questioni di stile. È l’intero impianto della vicenda che può apparire sospetto. Troppe le reticenze, eccessivo lo squilibrio tra certe fasi della sua vita e altre; l’impressione che se ne ricava è che ci sia dietro l’intento di favorire una certa impostazione ideologica.

Si prenda ad esempio il modo in cui viene sminuita la fase politica della banda di Crocco. Chi parla sembra ansioso di minimizzare il periodo a sostegno della “riconquista borbonica”, attribuendolo soltanto a motivi di convenienza, e liquidandolo in un capitoletto. Sparse un po’ ovunque ci sono affermazioni varie contro il governo borbonico, come a volersi giustificare a posteriori. Di contro, poca è la critica al nuovo governo unitario, e c’è una strana reticenza sull’esperienza della guerra garibaldina, cui Crocco partecipò combattendo nella battaglia del Volturno.

Amplificati sono invece gli episodi di ingiustizia sociale, soprattutto relativi all’infanzia, come a voler corrispondere a un cliché a quei tempi consolidato nella letteratura d’appendice: il povero che diventa bandito per i torti subiti, o delinque per difendere l’onore della propria donna, della sorella, della madre.

Eppure, in mezzo a questi elementi sospetti, ne traspaiono altri sulla cui autenticità ci sarebbe poco da discutere. La descrizione esatta di luoghi e personaggi, la ricostruzione al millimetro di alcune scene di battaglia, e più in generale alcune perle di saggezza popolare che difficilmente riusciremmo ad attribuire alla penna del capitano Massa: “la Patria, la Legge, la prima è una puttana, la seconda peggio ancora”. A noi il testo appare, nel complesso, autentico, se si ammette l’esistenza di una revisione linguistica da parte di una persona istruita. Basta soltanto tenere presente che un’autobiografia non è necessariamente un racconto sincero. Anzi, spesso è quello meno affidabile sulla vita di una persona.

La lettura di questo libro ci ha provocato un’istintiva associazione di pensiero. Ci è venuta in mente la figura di Alessandro Serenelli, l’assassino della santa Maria Goretti, come l’ha descritta Giordano Bruno Guerri in un noto e controverso saggio. Nei suoi ultimi anni di vita Serenelli, ormai scontata la pena, era diventato un bonario vecchietto accolto in una comunità religiosa e quasi plasmato dal contatto decennale con la Curia. La sua vicenda – un banale caso di tentato stupro, infelicemente concluso con la morte della vittima – era stato sfruttato dalla Chiesa per farne l’exemplum massimo dell’immoralità dilagante nella società moderna. Niente di strano fin qui: il punto è che lo stesso Serenelli si era prestato a dare fondamento a questa tesi; e negli ultimi anni pareva davvero convinto che a spingerlo alla violenza carnale fossero state – come si scriveva sulla stampa cattolica – le fotografie delle attrici sui rotocalchi.

Gran brutta bestia la prigione: quando ti tronca l’esistenza è capace di ingannarti persino sui tuoi stessi ricordi.

Ecco, a noi piace dunque immaginare Carmine Crocco in carcere come un animale ferito, che ha sempre vissuto all’aria aperta ed è costretto a patire la cattività. Non è facile mantenersi lucidi in quelle condizioni. È un combattente sconfitto, arrestato quando già aveva cessato la guerra e probabilmente sognava un termine della vita nell’anonimato. Ma nel chiuso della galera è visitato da un militare, intervistato sulla sua vita, sente destarsi l’attenzione su un’esistenza più che notevole. Ci sta che riandando con la mente agli anni che furono potesse non tutto ricordare, non tutto ricostruire. È perfettamente comprensibile il tentativo di giustificarsi, così come il pedaggio di corrispondere nel racconto a certi luoghi comuni che il pubblico amava sentir raccontare.

E in fondo da un certo punto di vista meglio così. Difficilmente la sua persona sarebbe sopravvissuta al tempo se non fosse stata circondata da un’atmosfera da romanzo d’avventura; se avesse davvero raccontato tutto così com’era avvenuto non si ritroverebbe oggi con quasi l’aureola del santo.

Così facendo Carmine Crocco forse rendeva più ardua la ricostruzione della verità (ma poco male, un po’ di sforzo e ce la si fa!); però sfuggendo alla storia si consegnava dritto dritto nelle mani della leggenda.

Marcello Donativi