Prefazione a
Il brigante Crocco e la sua autobiografia – Basilide Del Zio
Partiamo, come spesso ci piace fare, dalle rappresentazioni cinematografiche. Dopotutto, è quella la cultura popolare del nostro tempo, costituisce perciò un buono strumento per valutare il giudizio dei contemporanei sul passato.
Che ricordi, sono state tre, in tempi più o meno recenti, le raffigurazioni di Carmine Crocco al cinema on in tv. La prima, e probabilmente la più fedele, nel magistrale ‘O Re di Luigi Magni, con Giancarlo Giannini e Ornella Muti, datato 1989. Nel narrare le vicende di Borjès, la sceneggiatura, inevitabilmente, ci presenta anche di sfuggita il brigante Crocco, raffigurandolo con le fattezze di un rozzo popolano dal gran barbone e l’accento smaccatamente dialettale. Esattamente dieci anni dopo troviamo Crocco protagonista di un intero film sulla sua vita, con il volto di Enrico Lo Verso: Li chiamarono… briganti! di Pasquale Squitieri (1999). Questa volta il bandito beneficia di una raffigurazione appena un poco ingentilita: nonostante l’efferatezza, ci viene presentato come una vittima dell’ingiustizia sociale e, sebbene incrudelito, per così dire ruba ai ricchi per dare ai poveri; anche l’aspetto è meno rozzo, più che al contadino lucano tende al fascino trasandato dei pirati di Mompracen. La terza e più recente raffigurazione è passata in televisione nei primi mesi del 2012: Il generale dei briganti, sceneggiato in due puntate diretta da Paolo Poeti, con protagonista Daniele Liotti. Complici le esigenze delle fiction della tv di stato, qui l’edulcorazione del personaggio è estremizzata al punto da farne una specie di Renzo Tramaglino con il fucile. Via il barbone, attenuato l’accento, smorzata la violenza: ci si chiede quasi che mestiere facciano i briganti, visto che non rubano, non ricattano, a stento uccidono qualcuno.
Pur nella loro scarsa autenticità, interpretazioni come questa sono un segnale piuttosto interessante del sentimento comune nei confronti del cosiddetto brigantaggio meridionale. L’interesse degli appassionati di storia per quelle vicende, non solo mai spento ma addirittura in crescita, si nutre anche in buona parte di un’interpretazione dei briganti a metà strada tra Robin Hood e i fratelli Cervi, fino a farne addirittura un simbolo identitario del Meridione. “Briganti patrioti”, “Per tutti quelli per cui Crocco era un patriota”: sono solo alcuni titoli tratti da siti internet, forum e simili luoghi di aggregazione.
Sono fenomeni da inquadrare nell’ottica del presente e meriterebbero una discussione più approfondita. Probabilmente, nella cronica assenza di un sentimento nazionale italiano, le macro-regioni che compongono la nostra penisola cercano affannosamente di costruire un’identità propria andando alla ricerca di numi tutelari alternativi a quelli consueti. Banalizzando, potremmo dire che il Nord cerca di sostituire Garibaldi con Alberto da Giussano e strane suggestioni celtiche, mentre il Sud si richiama alle bande armate di epoca post-unitaria.
Eppure la fascinazione nei confronti del brigantaggio non può ridursi a questo, né si può dire essere una creazione recente. Di più: è addirittura precedente all’unità d’Italia. Appartiene al più ancestrale e sotterraneo fascino esercitato dalla figura del bandito. Agli occhi dell’uomo comune, la sua condizione di fuorilegge ne fa, tutto sommato, un uomo libero, nel significato più grezzo di persona non soggetta ad alcuna autorità se non il proprio istinto. Se la sua condizione è frutto di un passato tragico, di torti subiti dai potenti, o da un caso di mala giustizia, tanto di guadagnato: l’attività criminosa beneficerà anche di un comodo alibi, foriero di paradossi populistici del tipo “il vero delinquente è lo Stato”. Per non parlare di quando il bandito conserva, nonostante tutto, barlumi di umanità che lo portano a gesti di clemenza o lo trascinano in appassionanti storie d’amore: in questo caso scatta il tòpos del ladro e gentiluomo, una lunga tradizione che va dal già citato Robin Hood e, passando da Arsenio Lupin, arriva fino al successo del Romanzo Criminale di De Cataldo e le varie versioni per il cinema e la tv che ne sono state tratte. Siamo sinceri: nonostante la presenza del commissario Scialoja, la maggior parte degli spettatori del telefilm omonimo, in cuor loro, fanno il tifo per la Banda della Magliana.
Questa premessa ci è servita per sottolineare come il mito contemporaneo di Carmine Crocco, il bandito lucano che spadroneggiò per anni su una vasta area del Sud Italia, affonda le sue radici più profonde in stereotipi della cultura preesistenti agli avvenimenti storici; i quali non solo non potevano essere del tutto sconosciuti ai protagonisti di quelle vicende, ma furono anche, in misura maggiore o minore, sfruttati da loro per alimentare, in vita, il proprio mito.
Lo stesso Crocco dette un contributo non indifferente con la pubblicazione della sua autobiografia ai primi del ‘900, a cui già ci è capitato di dedicare una presentazione in occasione della più recente ristampa. Un testo che suscitò sin da subito il forte interesse dei lettori e non mancò di sollevare qualche polemica relativa alla sua autenticità. Tra quelli, però, che si chiedevano se le memorie fossero originali, o inventate di sana pianta, o astutamente rielaborate da un’altra penna, si levò in quegli anni la voce di una persona che non metteva in dubbio l’identità dell’autore, ma semplicemente la sincerità delle sue parole. Parliamo, ovviamente, del presente pamphlet, pubblicato originariamente a Melfi nel 1903: Il brigante Crocco e la sua autobiografia, memorie e documenti a cura del Dott. Cav. Basilide Del Zio.
Basilide Del Zio, di professione medico, proveniva da una famiglia dalla lunga tradizione rivoluzionaria e liberale. Uno zio paterno, ex soldato di Murat, era stato carbonaro e successivamente uno dei sostenitori dei moti costituzionalisti del 1848; il fratello maggiore, Floriano, aveva partecipato attivamente ai moti del melfese, e in seguito intrapreso la carriera politica fino a diventare senatore del Regno d’Italia. Parliamo, dunque, di gente cresciuta in un ambiente culturale che aveva a lungo agognato il momento dell’unità e redenzione della Patria. Terribile sarà stato lo sgomento davanti all’instabilità sociale seguita all’indomani dell’unificazione, della quale il fenomeno del brigantaggio costituiva forse, se non la rappresentazione più significativa, quantomeno quella più tangibile. Non dimentichiamo che la Lucania era stato uno dei teatri maggiori del brigantaggio politico: non, dunque, un puro fenomeno di delinquenza anarchica, ma uno scenario di lotta politica, di quelle che all’epoca erano chiamate reazioni. In questo caos di paesi assaltati e temporaneamente riconsegnati a sedicenti autogoverni borbonici, i liberali come la famiglia Del Zio erano quelli destinati a correre i maggiori pericoli: le bande, infatti, come primo provvedimento tendevano a effettuare spedizioni punitive nei confronti dei traditori del re.
È necessario partire da queste premesse, se si vuole comprendere la molla che ha spinto l’autore a scrivere il presente libello.
Come ammette esplicitamente nelle prime pagine, la lettura dell’autobiografia di Crocco è stata per lui un’esperienza fonte di disturbo e indignazione. L’abbiamo detto: Del Zio si schiera a favore dell’autenticità del testo; ma è proprio questo uno degli elementi che lo riempie maggiormente di sdegno: dato per certo che l’autore è davvero Crocco, la sua autobiografia assume i contorni, per il melfitano, di un’opera di auto-assoluzione. Memore dei lutti e delle distruzioni causate dalle bande armate, Del Zio non può accettare che Crocco si presenti come un tenero bambino reso cattivo dalle prepotenze subite; né che passi sotto silenzio buona parte del sangue versato.
Assume, dunque, su di sé il compito di compilare una contro-biografia. Una narrazione, cioè, da cui traspaia, attraverso un racconto asciutto e numerosi riferimenti a fonti documentarie, la cruda realtà delle imprese criminose delle bande facenti capo a Crocco. Il capobrigante, nell’introdurre le sue memorie, aveva promesso al lettore fatti “di cui inorridire”; salvo, poi, in parte non mantenere la promessa, per reticenza o tendenza a prediligere aspetti più folcloristici della propria vita, specialmente se utili a procurargli delle giustificazioni. Del Zio, al contrario, non si perde in fronzoli: non indugia sulla vita privata del suo personaggio, per elencare invece, come nella requisitoria di un pubblico ministero, le numerose efferatezze compiute: incendi, infanticidi, stupri, torture.
Ecco perché, nonostante sia incentrato sulla carriera criminosa di Crocco, il libro non ha in Crocco il suo vero protagonista. Tutta la vicenda, al contrario, è vista secondo l’ottica della popolazione civile, unica vittima del brigantaggio, e dei soldati chiamati a contrastare il fenomeno, veri protagonisti del racconto. I briganti, da par loro, appaiono e scompaiono come fantasmi; sono figure sfuggenti come la tattica di guerriglia da loro adottata. Tutto questo non fa che accentuare l’utilità che ha per noi questo libro: Come divenni brigante ci ha fornito il punto di vista di Crocco, indispensabile, pur con tutti i se, i ma, i dubbi, le probabili interpolazioni e via di seguito, per ricostruire da un punto di vista interno l’ambiente dal quale i briganti sono sorti; il pamphlet di Del Zio ci offre, invece, il punto di vista esterno, permettendoci di sopperire a tutte le dimenticanze, le omissioni e le edulcorazioni del racconto del fuorilegge. E lo fa, peraltro, basandosi su una documentazione rigorosa, parte della quale è riportata in appendice: articoli d’epoca, documenti ufficiali, e non ultima la sezione in cui sono trascritti gli sgrammaticati biglietti (oggi diremmo pizzini) con cui i briganti ricattavano le proprie vittime o davano disposizioni ai manutengoli. Una buona lettura per riportarci alla realtà della società misera e analfabeta che generò il brigantaggio, e allontanare così dagli occhi l’immagine ripulita a uso delle famiglie offerta dagli sceneggiati televisivi, per sostituirla con qualcosa che somiglia più alla mafia siciliana che alla foresta di Sherwood.
Abbiamo sempre parlato di una natura sfuggente del brigantaggio meridionale. Di un fenomeno, cioè, talmente complesso da non poter essere racchiuso in un’unica definizione, e del quale è difficile, se non impossibile, dare un unico, coerente giudizio di valore. Di questi tempi, in molti ci provano, spesso con la già citata tendenza a fare dei briganti dei simboli positivi di indipendenza nazionale. Converrebbe anche conoscere fonti come questa, parziali sì, soggettive come ogni fonte di qualunque epoca; necessarie però ad aggiungere nuovi tasselli al quadro d’insieme. E poi, alla fine, si discuta pure, anche animatamente, sui pro e i contro, sulle cause e le giustificazioni, facendo scontrare le passioni e le fredde analisi. Purché si discuta: un libro che non susciti sentimenti contrastanti non è degno di essere letto.
Marcello Donativi