Tra commedia e tragedia

Prefazione a
Vent’anni di beffe – Carlo Veneziani

Una volta tanto buttiamola sul personale.
Quando hai cinque anni e sei alto poco più di un metro, è un po’ difficile che tu segua l’attualità politica. Però hai un fiuto istintivo per ciò che fa ridere gli adulti. Ecco, io nel 1983 non avevo la più pallida idea di cosa fosse un Presidente del Consiglio, né dell’esistenza di una roba chiamata Democrazia Cristiana. Avevo tuttavia sentito non so da chi una storiella e, pur non comprendendola fino in fondo, mi era rimasta impressa.

Fu così che un giorno mio padre, arrivando a prendermi all’asilo in ritardo per un contrattempo, mi trovò, unico bambino rimasto, al centro di un cerchio di maestre attonite e divertite, mentre raccontavo loro una barzelletta su Amintore Fanfani.

La storia era la seguente. Fanfani è in viaggio sulla sua auto blu in compagnia dell’autista personale quando, percorrendo una stradina di campagna, a un certo punto investono per sbaglio un animale. Scesi dalla macchina, si rendono conto trattarsi di un maiale che aveva incautamente attraversato la strada. Dispiaciuto per la sorte della bestia e per il danno economico arrecato, Fanfani incarica l’autista di raggiungere la vicina fattoria, informare i proprietari e offrire un risarcimento a suo nome. Il tempo passa, ma l’autista non fa ritorno. Mezz’ora, un’ora. Fanfani inizia a preoccuparsi, ma in quel momento l’autista si ripresenta mezzo ubriaco e carico di regali: prosciutti, formaggi, un fiasco di vino. “Cos’è successo?” chiede il Presidente. “Non saprei,” risponde l’autista, “io semplicemente ho bussato e ho detto: sono l’autista di Fanfani, quel porco l’ho ammazzato io.”

Potete immaginare lo stupore quando, circa trent’anni più tardi, in televisione ho sentito raccontare la stessa barzelletta. La trama era identica, se non per un piccolo particolare: il protagonista non era più Fanfani – che nel frattempo, buon per lui, era defunto in tarda età nel suo letto – ma Silvio Berlusconi. Per il resto, nulla era cambiato: la strada di campagna, il maiale ucciso, l’autista, i regali del fattore. Ma guarda un po’, devo aver pensato, come sono fatte le barzellette: nessuno sa chi le inventa, eppure viaggiano, attraversano i decenni, si trasformano, si adattano all’attualità. Questa era stata creata per dileggiare un politico degli anni ’80, e ce la ritroviamo all’alba del 2000 modificata per colpire un bersaglio più recente.

Invece mi sbagliavo. La barzelletta non era stata inventata per Fanfani, ma era a sua volta l’adattamento di una battuta ancora più vecchia. E il protagonista non era né Fanfani, né Berlusconi, ma un personaggio un po’ più pesante nella storia nazionale, del quale, anche raccontando una boutade, si aveva comprensibilmente paura di fare il vero nome.

Correndo in aiuto, Bagnasciuga e uno dei suoi maggiori tirapiedi attraversano un villaggio, investono e schiacciano un maiale.
– Lo raccogliamo e ce la squagliamo? – propone il subordinato.
– No, anzi, una volta tanto, fingiamo d’essere onesti e paghiamo il danno ai contadini.
– Sta bene, vado io.
Il dipendente si muove, arriva alle casette poco distanti e di lì a qualche minuto torna verso il padreternone con un carico di doni e fiori, comunicando con sommo stupore:
– Sapete che mi hanno fatto un mondo di feste, coprendomi d’ogni ben di Dio? Pareva ch’io avessi reso loro il più gran favore del mondo.
– E come mai? – chiede il divo, che frattanto s’era un po’ appisolato.
– Mah! Io, da lontano, ho indicato questo posto, confessando candidamente: «Perdonatemi, cari paesani, non vogliatemi male, io ho ammazzato quel grosso porco lì!»
– Ebbene?
– Ebbene, hanno visto voi riverso nella macchina e si son messi a ballare come matti.

E avrei potuto saperlo, perché da quando ero nato la versione originale era sempre stata lì, a portata di mano, all’interno di un volume sugli scaffali della libreria di famiglia. Un libro dalla copertina morbida tutta sbrindellata, stampato su quella carta non troppo fine che si riusciva a trovare in tempo di guerra, ingiallita dal tempo e dai viaggi. Era stato pubblicato a Roma nel 1944, acquistato forse a Firenze da mio nonno qualche anno più tardi e da lì aveva attraversato l’Italia fino a riposare in una libreria della Puglia. Vent’anni di beffe, di Carlo Veneziani.

Sono nato in una generazione per la quale il ventennio fascista era in pratica finito l’altro ieri. I nostri genitori e nonni avevano vissuto in prima persona quegli avvenimenti e quando capitava di vedere un film sull’argomento, che fosse una narrazione drammatica come Roma città aperta di Rossellini o ironica come Tutti a casa di Comencini, lo vivevano con la partecipazione emotiva di chi sta assistendo non alla Storia, ma a un ricordo d’infanzia. I due estremi dei film citati si riproducevano anche nelle conversazioni. Ricordo, per esempio, mio padre rimproverare noi figli di essere fondamentalmente dei viziati e, come paragone, raccontarci le privazioni che loro avevano subìto durante la guerra, al tempo dei razionamenti. Immancabilmente, questo tetro racconto era interrotto da mia zia, sua sorella maggiore: lo contraddiceva ricordando che, tutto sommato, al mercato nero qualche leccornia si riusciva a rimediare e la domenica a fine pasto potevano anche mangiare il dolce. Ne nascevano dei battibecchi piuttosto teatrali.

In sintesi sono cresciuto facendomi l’idea che la storia italiana fosse così, sempre in bilico tra la tragedia e la commedia.

Carlo Veneziani questo lo sapeva molto bene. D’altra parte, era un autore di teatro specializzato nella commedia. Nato a Leporano, in provincia di Taranto, nel 1890, aveva avuto una discreta carriera al centro-nord come commediografo, con alcune incursioni anche nel mondo della sceneggiatura radiofonica e cinematografica. Il suo campo d’azione era il teatro leggero, la commedia romantica, vagamente sentimentale. La Storia, però, in quegli anni andava in tutt’altra direzione. Il 25 luglio 1943, com’è noto, Mussolini era deposto dal Gran Consiglio e messo in stato di arresto, il governo affidato al generale Badoglio. Seguirono dei mesi strani: il fascismo sembrava come scomparso nel giro di un mattino, quasi appartenesse a un’epoca lontana; dall’altro lato, però, proseguiva ufficialmente la guerra a fianco della Germania, con una continuità poco convinta e quantomeno sospetta. Qualcuno si illuse che fosse tornato un tempo in cui si potesse parlare liberamente senza conseguenze. Per citare un episodio tra i tanti, è il periodo in cui un giovane Montanelli pubblica sul Corriere della Sera degli articoli ironici sui gerarchi fascisti, che di lì a un anno gli costeranno il carcere e la condanna a morte. Ecco, Veneziani non ce lo dice, ma è possibile che l’idea di questo libro gli sia venuta in quei mesi di limbo, nei quali molti, dopo anni di commenti a mezza bocca, sentivano finalmente venuto il tempo di liberarsi dei pesi patiti. Era un’illusione, come ben sappiamo oggi: all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre, il fascismo tornava prepotentemente sulla scena, sostenuto dalle baionette tedesche, troncando di colpo l’idea, accarezzata per breve tempo, che fosse tutto finito: guerra, dittatura, censura, fame. “Ce la fanno rifare!” si dicono l’un l’altro, increduli, i soldati protagonisti di Primavera di bellezza di Beppe Fenoglio.

Quando i Tedeschi occuparono la capitale, Carlo Veneziani si trovava a Roma. Nove mesi passeranno tra l’occupazione e l’arrivo dell’esercito anglo-americano. In quei nove mesi, oltre a prendere parte al neonato Comitato di Liberazione Nazionale, il nostro autore compilò anche la seguente raccolta. Un libro proibito, da nascondere a pezzi in più appartamenti, in un periodo in cui si moriva per molto meno, anche senza colpe. E, di colpe, questo libro ne aveva tante, fra tutte la più grave: fare dell’ironia.

Tecnicamente, Vent’anni di beffe è una raccolta di barzellette sul fascismo. Ma sarebbe riduttivo considerarlo un mero centone di freddure. La fonte primaria sono, ovviamente, tutta una serie di battute e storielle raccolte dall’autore nel corso degli anni, lette sulla stampa clandestina, ascoltate nei corridoi, a volte raccontate a bassa voce. La cornice che le raccoglie, però, dà a tutto questo il tono quasi di un saggio di sociologia sull’Italia e sugli italiani, sul potere e le sue magagne. Si potrebbe dire che Veneziani, partendo dall’episodio particolare del fascismo, parli in realtà di temi più universali che attraversano la storia tutta e gli uomini nel complesso. Non a caso il libro inizia in questo modo:

Terribile arma è il ridicolo, penetra a fondo, scalza, lacera, uccide, avendo soltanto l’aria di scherzare; spietata arma che il popolo italiano ha maneggiato per vent’anni maestrevolmente, perchè il deridere più che il ridere è nelle nostre millenarie abitudini.

Nel corso delle pagine, quest’arma nelle mani di Veneziani (che altro non si pone, in fondo, che come portavoce della vox populi) si scaglia via via contro un ventaglio ampio di soggetti. I potenti del regime, certamente, a cominciare da Lui, il Bagnasciuga, il Padreternone, il Nume di Predappio, l’Infallibile, il Gran Fetonte, il Napoleonital, sbeffeggiato dall’inizio alla fine per la vanagloria, l’esagerata ambizione, la continua posa a uso e consumo dei fotografi, messe a confronto con la pochezza, quando non il disastro, dei risultati. A seguire il codazzo dei fedelissimi, lo Stato Mangione, primo fra tutti Achille Starace e poi i vari Ciano, Farinacci e gli altri, sferzati senza pietà per l’arrivismo, la piaggeria e la corruzione. Poi i personaggi della cultura, gli scrittori, gli attori e gli altri baciaterga intenti a vendersi al fascismo per il proprio tornaconto. Non ultimi – attenzione – gli italiani tutti, dei quali in più occasioni è derisa la passiva accettazione della dittatura come una sorta di male passeggero, al quale fare finta di aderire senza una reale convinzione. È in questi passi che risiedono probabilmente gli spunti più caustici di questo libro.

Ci piace, a questo proposito, citare un paio delle battute che abbiamo amato di più:

Un forestiero s’informava:
– Come si sta in Italia, ora che c’è il fascismo?
– Mah, non ci si può lamentare! – si rispondeva, sottintendendo che non era permessa alcuna opposizione.

E ancora:

Un tale che voleva farsi arrestare, pensò di dir corna del partito, durante una sfilata di «quadrate legioni».
– Gaglioffi! – egli imprecava in modo da farsi sentire – i fascisti sono tutti delinquenti.
Ma i plotoni passavano senza curarsene. Quello alzò ancor più la voce: – I fascisti sono un branco di cinghiali, di lupi!
Nessun effetto, i militi sentivano e tiravano via. L’ostinato incalzò, accrebbe le contumelie, tanto che uno degli squadristi in marcia mormorò al camerata vicino:
– Quello è proprio uno scemo! Finchè lo sentiamo noi, pazienza! Ma guai se lo sente uno dell’ultimo plotone, che è fascista…

Come detto, questa riedizione non nasce da una ricerca di mercato, ma semmai da una ricerca nell’armadio. L’esemplare dal quale abbiamo attinto è quello, appartenuto a mio nonno, cui facevo cenno nelle prime righe. Nel riprodurlo, abbiamo pensato di arricchirlo di un apparato di note a pie’ di pagina, per tracciare un breve profilo dei personaggi, noti e meno noti, a cui si fa riferimento nel testo. Non ce ne vogliate se eravate già a conoscenza delle informazioni contenute in queste note; se, al contrario, vi saranno state di una qualche utilità, avremo assolto al nostro intento.

Non resta che lasciarvi alla lettura, con la consapevolezza e il piacere di avere ridato vita, com’è nostra abitudine, a un altro libro dimenticato, ma anche di avere reso omaggio a un pezzo di storia di famiglia. La nostra e quella di tutti.

Marcello Donativi