Il Principe dei reazionari

Prefazione a
Storia delle Due Sicilie 1847-1861 – Giacint De Sivo

Esiste una storia parallela del nostro paese.

Nascosta nelle biblioteche, narra vicende diverse da quelle dei libri di testo. Parla di avvenimenti rari da rintracciare altrove, racconta di uomini il cui nome difficilmente si troverebbe in una enciclopedia. Bisogna andarsela a scovare, questa storia: nessuno te la svelerà mai di propria iniziativa.

Perché è nascosta? Per vari motivi. Sarà la pigrizia intellettuale che da sempre ci contraddistingue, la paura di guardare i fatti da una diversa prospettiva; o più probabilmente la classica abitudine della storia scritta dal vincitore. Niente di cui stupirsi, accade ovunque. Ma troppo spesso accade da noi, in un paese che avrà pure avuto da secoli una coscienza nazionale, senza per questo tirarsi indietro dal fare del suo passato una successione pressoché ininterrotta di guerre civili.

Ogni volta che la guerra termina, inizia il processo di rimozione. Lo sconfitto deve essere cancellato, al limite messo al ridicolo. Le sue testimonianze oscurate, relegate a una folcloristica rarità da bancarella, mentre sull’altro fronte si imbastiscono poemi epici di ogni tipo. E non ci si rende conto del male che ci si fa in questo modo. Non importa, infatti, quanto una parte potesse avere torto: distruggere la conoscenza è in ogni caso un crimine. E ingigantire a oltranza i meriti della propria fazione alla lunga danneggia qualunque causa. O almeno, questo è ciò che nella nostra ingenuità crediamo.

Molte di queste storie dimenticate risalgono al XIX secolo. Una di queste, parla dell’autore del presente libro.

Giacinto de Sivo nacque nel novembre del 1814 a Maddaloni, un posto che certo all’epoca non si poteva immaginare destinato a un ruolo in avvenimenti storici. Cinquant’anni più tardi sarebbe divenuto celebre per l’eroica resistenza del reggimento di Nino Bixio durante la battaglia del Volturno; ma ai tempi in cui nacque il nostro autore lo immaginiamo come un sonnolento posto di provincia in un sonnolento reame. La sua famiglia era immersa fino al collo nella classe dirigente del Regno delle Due Sicilie: basterebbe citare il padre, ufficiale dell’esercito, ma ancora di più uno zio che nel 1799 aveva combattuto i repubblicani tra le fila dell’esercito sanfedista del Cardinale Ruffo. Segnali più che chiari del tipo di educazione ricevuta dal De Sivo: ne darà dimostrazione in età adulta, sfoderando una rabbiosa fedeltà al trono dei Borboni.

Come ogni bravo figlio della buona società, compì gli studi a Napoli: lezioni di lingua ed elocuzione italiana presso la scuola del marchese Basilio Puoti. Anche in questo caso, possiamo azzardare qualche congettura. Non è difficile immaginare che tipo di educazione letteraria abbia ricevuto il giovane De Sivo, se si dà uno sguardo anche rapido alla sua produzione successiva: una lingua classicista, quasi trecentesca, e una certa tendenza all’ampollosità. Quelli erano i tempi e i luoghi. Nelle sue memorie Luigi Settembrini, coetaneo ma di vedute esattamente opposte, ci ha ben descritto il clima che si respirava nelle scuole del tempo: un pigro rifugiarsi nel tempo che fu, vuota erudizione, una presenza pervasiva dell’insegnamento religioso in tutte le discipline. Certo, c’è da dire che la medesima educazione provoca effetti diversi a seconda del contesto, ed è in questo che si scopre il valore dell’ambiente familiare; perché a ben vedere Settembrini, di padre carbonaro, avverte un senso di soffocamento e si dà al riformismo liberale; De Sivo, di famiglia tradizionalista, nulla trova di che eccepire e assorbe quella cultura e quel mondo.

Da qui in poi il nostro segue un doppio percorso: da un lato è un amministratore del Regno, prima ammesso nella Commissione per l’Istruzione Pubblica, poi nominato Consigliere d’Intendenza della Terra di Lavoro; dall’altro è un poeta, più esattamente tragediografo. Una carriera intrapresa nel 1840, con la composizione del Costantino Dracosa. Seguiranno altre sette tragedie di argomento storico, a cui si aggiunge nel 1846 un romanzo, il Corrado Capece.

Fino a questo momento lo possiamo immaginare come un quieto nobile di provincia, magari già con un carattere acceso, ma con poche occasioni di metterlo in luce. La sua vita sarebbe potuta scivolare tranquilla tra le responsabilità amministrative e — chiamiamolo pure così — l’hobby della letteratura, importante quanto si vuole ma non al punto da farne una celebrità.

Ma quelli non erano tempi, e quando passano le bufere non si può mai sapere che direzione prenderà la vita. Nel 1848 l’Europa è infiammata dalla rivoluzione, e ben presto il vento arriva anche nel Regno di Napoli. Milano si è ribellata agli Austriaci, il Piemonte si appresta a fornire il suo aiuto, persino il Papa sembra appoggiare il movimento. Poi gli avvenimenti incalzano: Venezia è indipendente, scoppia la guerra tra l’Austria e il Piemonte, il Papa ritira la sua adesione e nel giro di poco tempo viene spodestato da un colpo di mano liberale. Lo scossone non risparmia il Regno delle Due Sicilie, con la ribellione della Sicilia e la concessione della Costituzione da parte di Ferdinando II; fino ai tragici avvenimenti del 15 maggio e il processo ai membri della Setta dell’Unità.

De Sivo assiste a questo terremoto con un misto di sdegno e incredulità. La sua vita è segnata da una incrollabile fedeltà alla causa dei Borboni; non però tanto fanatica da impedirgli di dissentire dalle decisioni del Re. Uomo di un altro secolo, non comprende le ragioni per cui il sovrano si sia piegato a concedere la Costituzione; ne vede i risultati e non riesce che scorgere anarchia e distruzione. Mette allora mano alla penna, e questa volta non per un mero esercizio di stile. Dalla traumatizzante esperienza del 1848 nasce un nuovo De Sivo: lo storico.

Ma nel 1849 anche quella fase è passata e la situazione sembra tornare alla normalità. La Sicilia è domata, la Costituzione, ufficialmente mai abolita, non viene di fatto più applicata e Ferdinando II si ritira in una triste vecchiaia. L’esperienza lascia tuttavia un pesante strascico di insoddisfazioni, e troppi cospiratori mandati in esilio e pronti a rifarsi alla prima occasione. De Sivo ha ormai scritto buona parte di un’opera storica sugli eventi di quel biennio, ma decide di non renderla pubblica, più per timore di spiacere alla parte legittimista che a quella rivoluzionaria; e la nasconde nella sua villa.

Una decisione che in un certo senso gli sarà fatale. Nel 1860 i Mille sbarcano a Marsala, e nel giro di pochi mesi, tra l’incredulità generale, sbaragliano il più numeroso esercito borbonico e arrivano alle porte di Napoli. È il tanto temuto — per lui — trionfo della Rivoluzione. Quando il giovane Francesco II lascia Napoli per rifugiarsi a Gaeta, i garibaldini occupano i principali punti strategici al di qua del Volturno: fra questi c’è Maddaloni, in cui De Sivo ricopre la carica di consigliere cittadino. In quanto autorità locale, viene invitato a recarsi a rendere omaggio e sottomissione a Garibaldi; in seguito al suo rifiuto, il 14 settembre è arrestato e condotto prigioniero a Napoli. Nel frattempo la sua villa è requisita e utilizzata come quartier generale di Nino Bixio. Le camicie rosse frugano in ogni dove, rubano di tutto. Fra le altre cose, trovano il manoscritto sulla rivoluzione del 1848: ce n’è abbastanza per fare del nostro autore un pericoloso sospetto.

E infatti, anche quando viene scarcerato, i guai per lui non sono finiti. Nel gennaio 1861, mentre re Francesco è sottoposto al bombardamento di Gaeta e già si preparano le prime elezioni del nuovo Parlamento Italiano, De Sivo viene nuovamente arrestato senza una motivazione chiara, per generici sospetti di cospirazione. Rilasciato dopo due mesi, decide di lanciare la sua aperta sfida al nuovo regime fondando una rivista di stampo reazionario, la Tragicommedia. Dopo appena tre numeri, il periodico è costretto a chiudere e il nostro gentilmente invitato a lasciare il Regno d’Italia, pena una nuova carcerazione.

Così De Sivo intraprende, come molti della sua parte, la via dell’esilio a Roma, dove si è rifugiato il Re assieme alla sua corte. Dopo le sue recenti vicissitudini, ha ormai chiaro il suo obiettivo: riprendere il manoscritto incompiuto sulla Rivoluzione, per farne non più una descrizione dei fatti del 1848-49, ma una più completa storia recente del Regno delle Due Sicilie, dal 1847 fino alla sua caduta. Per questo ha bisogno dell’appoggio della corte reale, cui si rivolge per ottenere documenti e informazioni. Ma non trova l’aiuto sperato: nonostante i continui attestati di stima, persino nella cerchia del Re è ritenuto troppo virulento ed estremista.

Ma non si perde d’animo, benché abbia difficoltà anche trovare dei tipografi disposti a stampare il suo fiume di polemiche. Tra il 1862 e il 1863 sono pubblicati i primi due volumi; due anni più tardi l’opera completa è nelle mani di un tipografo veneto, in territorio austriaco, pronta per la stampa. Ma qualche mese più tardi il Regno d’Italia occupa il Veneto in seguito alla III Guerra d’Indipendenza. Il tipografo, temendo le persecuzioni, non pubblica nulla e si rifiuta persino di restituire il manoscritto: De Sivo è costretto riscrivere tutto.

Un’impresa immane, che il nostro fa appena in tempo a portare e termine: nel novembre 1867, dopo aver licenziato il quinto volume, muore in esilio a Roma.

Ecco dunque la storia di questa opera, che da più parti ci è stata richiesta. Una testimonianza che in un certo senso procede di pari passo con il Viaggio da Boccadifalco a Gaeta di padre Buttà, da noi già proposto in passato. Ma con una sostanziale differenza. Giuseppe Buttà scrive in età avanzata, quasi due decenni dopo gli avvenimenti vissuti, e come lui stesso ammette lo fa “senza passioni”. Questo non gli impedisce di essere feroce, ma sempre in modo più tendente al sarcastico che al velenoso. Tutto sommato è un sacerdote, che si sforza per quanto gli è possibile di perdonare anche ai nemici.

Ma De Sivo non è un sacerdote, e per di più scrive a caldo, in parte durante gli avvenimenti stessi. Non si accontenta di contribuire a quella che ritiene essere la verità: troppo bruciante è ancora l’esperienza vissuta, vuole attaccare, sbugiardare. Se lo scopo di Buttà è fare delle precisazioni, quello di De Sivo è mettere alla gogna.

Da qui l’estrema virulenza di queste cronache, che a tratti sembrano procedere come un fiume in piena. Il mondo di De Sivo non conosce sfumature: è tutto o bianco o nero, una eterna contrapposizione tra buoni e cattivi, e se i buoni hanno qualche colpa è unicamente quella di essere troppo morbidi nel combattere i cattivi. Il suo sdegno è universale, e gli fa macinare gli avvenimenti senza perdere tempo a badare alle sfumature, forte com’è delle sue convinzioni. Il vecchio è buono, il nuovo è cattivo, punto e basta; la monarchia dev’essere assoluta, la religione cattolica imposta di stato, la censura necessaria; e il suo snobismo raggiunge vette involontariamente esilaranti quando riserva ai parvenu della società appellativi simpatici come “lurida feccia”, “lezzo di trivio”, “sozza bordaglia”. Un personaggio che doveva avere molto dell’eccessivo, insomma; reazionario sì, ma reazionario a tal punto da scrivere in un italiano antiquato persino per l’ottocento.

Un libro inaccettabile, dunque, degno nemmeno di essere letto? Dipende. Certo, non va troppo per il sottile: già soltanto leggere il primo libro vuol dire confrontarsi con una serie di asserzioni capaci di indignare il più moderato dei progressisti; una rapida storia dell’epoca contemporanea che fa a pezzi illuminismo, scienza e democrazia come frutti di un complotto a metà strada tra il massonico e il satanico. Ma il nostro invito è quello di farsi forza e andare avanti: ne vale la pena. Mai recedere, nemmeno di fronte a quello che ci appare più indigeribile, cercare sempre di ricavare sia pure quell’1% di verità da ogni testo; è questo quello che chiamiamo un approccio laico alla cultura. Anche se può sembrare paradossale parlare di laicismo a proposito di un autore fanaticamente teocratico.

Alla vigilia delle celebrazioni del 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia, restiamo più che mai convinti della necessità di recuperare anche questa parte della letteratura risorgimentale. E non tanto per costruire una memoria condivisa, il che ha troppo il sapore di un compromesso a tavolino; quanto piuttosto per costruire una memoria completa.

Eccovi dunque la Storia del De Sivo. Da più parti l’avete chiesta; siamo lieti di accontentarvi. Ma fate attenzione: è materiale che scotta.

Usare con cautela.

Marcello Donativi