In principio era il torchio

Prefazione a
Memorie di un editore – Gaspero Barbera

Una volta che il battitore ha finito il suo compito, viene il momento del torcoliere. Il battitore ha appena inchiostrato, col suo tampone di cuoio, la forma di stampa pazientemente creata dal compositore; il torcoliere inserisce allora un foglio di carta nel timpano, chiude la fraschetta e, azionando una manovella, fa scorrere il carrello sotto al torchio; dopodiché raccoglie tutte le proprie forze e tira la leva. Il torchio fa aderire con forza la carta alla forma cosparsa di inchiostro: una volta libera, si sarà magicamente trasformata in una pagina a stampa da appendere, come panni di bucato, ad asciugare.

Per quanto esotico e lontano ci possa sembrare in questi tempi di print on demand e self publishing, tale sistema di stampa restò pressocché immutato per secoli e il procedimento non era molto differente agli inizi del XIX secolo, quando il piemontese Gaspero Barbera si accostò per la prima volta all’arte della tipografia. Certo, dai tempi di Gutenberg erano avvenute delle piccole innovazioni. Il torchio era di metallo e non più di legno e il battitore utilizzava, al posto del tampone, un più pratico rullo di caucciù; ma la sostanza del lavoro di stampa era la stessa, un delicato processo che poteva comportare fino a 50 secondi per la realizzazione di una sola facciata.

L’800 era però anche un tempo di progresso tecnologico, e così il protagonista della nostra storia, dopo avere avviato l’attività utilizzando il classico torchio manuale, verso la metà degli anni ’50 decide che è giunto il momento di mettersi al passo coi tempi e affronta una lunga trasferta a Parigi per dotarsi di una moderna macchina da stampa automatica. Ne tornerà con un costoso modello Detartre, un’apparecchiatura che non ha più, come il torchio di Gutenberg, quell’aria vagamente sinistra così somigliante a uno strumento di tortura, ma un aspetto che farebbe la gioia degli appassionati di quello che oggi è chiamato steam-punk: un complicato groviglio di ingranaggi metallici e rulli, il tutto mosso dalla nuova forza dominante del secolo, il vapore. Tant’è che qualche anno dopo, man mano che la bottega si ingrandisce e il numero di macchine da stampa aumenta, Barbera dovrà porsi il problema di acquistare un nuovo stabile che sia al pianterreno e sufficientemente spazioso da ospitare queste poderose creature a carbone. È in questi dettagli che risiede, a nostro avviso, il fascino maggiore di queste Memorie di un editore.

Benché il suo nome sia oggi meno ricordato rispetto ad aziende di poco posteriori come la Utet o i Fratelli Treves, alla ditta di Gaspero Barbera, torinese di nascita ma fiorentino di adozione, allievo del grande Le Monnier, può a buon diritto essere assegnato il merito di avere fondato l’editoria moderna nel nostro paese. Come tutti i miti di fondazione, il racconto della sua vita trova perciò gli aspetti più attraenti nella descrizione di un’epoca pioneristica.

Vi era infatti un tempo in cui confezionare un libro era un’operazione lunga e laboriosa, appartenente, più che all’industria, a un fine artigianato. Raccogliere il testo significava incaricare qualcuno, spesso un giovane studente di poche pretese, di ricopiarlo a penna dal manoscritto originale dell’autore, magari custodito gelosamente dagli eredi. Voleva dire farselo spedire per posta, con tutte le complicazioni del caso, non ultimi i pesanti balzelli esistenti tra i confini dei vari regni, ducati e granducati che componevano l’Italia e le lungaggini dei controlli doganali dovuti alla censura. La censura, già: essendo ogni staterello dotato di un suo più o meno vasto indice dei libri proibiti, non era detto che ciò che era consentito leggere a Milano lo fosse anche a Torino o a Firenze. Una volta arrivato il testo, ammesso e non concesso che fosse stato ricopiato in modo fedele, andava posto nelle mani del compositore, che non era, come al giorno d’oggi, soltanto chi scrive la musica. Si trattava al contrario di un operaio specializzato, con il compito di trascrivere il testo in caratteri di piombo, componendo – appunto – ogni riga all’incontrario, in negativo, tipo dopo tipo (e basterebbe osservare le dimensioni di un corpo 11, come quello che leggete in questo momento, per farsi idea di quanto minuscole fossero quelle forme di piombo), e di riga in riga arrivare a una pagina, e di pagina in pagina a una forma di stampa composta di 4, 8 o 16 facciate a seconda delle dimensioni finali del volume. Un mestiere logorante, davanti al quale dovrebbero far sorridere le eventuali lamentele di un grafico contemporaneo, comodamente seduto davanti al suo pc. Andava poi, naturalmente, stampato, perché l’editore era generalmente anche tipografo e i libri era abituato a stamparseli da sé. E farli rilegare a mano, infine, da altri operai specializzati. Una volta pronta la prima edizione, in tirature tali che oggi sarebbero considerate forse troppo caute, iniziavano la distribuzione e la promozione, se così si possono chiamare il contatto diretto con le librerie, senza intermediazione alcuna di grossisti del libro, e la segnalazione sulle poche, ma diffuse, riviste letterarie.

In tutto questo processo non c’erano di mezzo editor, agenti letterari, fiere del libro o booktrailer; e se un’opera era rifiutata dall’editore, ciò era motivato in lingua italiana e non attraverso formule oscure come “è un crossover senza target”.

Ciò apparirà forse casareccio, specialmente agli addetti ai lavori di oggi (forse un po’ meno a chi opera in ambiti medio-piccoli). Bisogna però considerare che si era agli albori della professione, in un’epoca in cui, per esempio, non esisteva nemmeno una regolamentazione sulla proprietà intellettuale. Sarà anzi il nostro Barbera uno dei primi a battersi, inizialmente senza successo, per il varo di una legge sul diritto d’autore; e nel corso della presente autobiografia riporta qualche gustoso aneddoto a riguardo. Pensiamo a una buffa lettera di Silvio Pellico il quale, invitato a concedere l’autorizzazione alla ristampa de Le mie prigioni, ammette con candore di non sapere se può dare il suo assenso autonomamente o se non è il caso magari di contattare il primo editore. O ancora, in una sequenza più lunga al dodicesimo capitolo, Barbera racconta il ruolo da lui svolto come mediatore in una causa intentata da Alessandro Manzoni a Felice Le Monnier a proposito di alcune ristampe de I Promessi Sposi: l’editore francese, male interpretando il testo della nuova legge sul diritto d’autore, credeva di potere liberamente ristampare qualunque opera scritta prima della sua promulgazione; l’anziano scrittore, da par suo, abbandonando per un momento le alte disquisizioni sulla Provvidenza e i Sacramenti, reclamava il pagamento della propria percentuale.

E qui, indirettamente, abbiamo toccato un altro tasto importante della questione. Editoria degli albori, se da un lato significava semi-artigianato, dall’altro voleva dire essere a contatto diretto con le più illustri personalità della letteratura. E così il nostro Barbera, di per sé un autodidatta e non propriamente un intellettuale, conosce di persona o intrattiene corrispondenza con molti tra i più grandi della sua epoca: sviluppa un particolare rapporto di affezione con Niccolò Tommaseo e Massimo D’Azeglio, ha tra i suoi collaboratori editoriali Giosuè Carducci, ha la possibilità di incontrare Alessandro Manzoni; e, se deve preparare la ristampa delle opere di Vittorio Alfieri, si preoccupa prima di tutto di conoscere il suo ex segretario personale, ancora in vita. Concedeteci la malignità: al giorno d’oggi, un editore è considerato di successo se, al massimo, ha uno scambio di e-mail con Fabio Volo.

Tanto basti per introdurre un’opera che è già in sé una tale miniera di informazioni da non abbisognare di troppe note aggiuntive. Sicuramente, come tutte le autobiografie, va presa con le dovute cautele: Barbera scrive intorno alla metà della propria vita, costretto all’immobilità dal male che lo porterà via qualche anno dopo (probabilmente una forma di sclerosi); ha in mente una sorta di opera didascalica ad uso dei figli e il tono tende all’esemplare, gonfia forse qualche episodio edificante, tace probabilmente qualche dettaglio, per esempio sulla sua vita pre-coniugale, che ci avrebbe restituito una immagine di lui più viva e in meno odore di santità. E tuttavia riesce a trasmetterci tutta la passione che lo ha tenuto in piedi per l’intera esistenza, attraverso il racconto delle speranze, i fallimenti e i successi, gli entusiasmi come le delusioni; e allo stesso tempo, per forza di cose, racconta uno spaccato di 60 anni di storia italiana, infarcendolo di retroscena su personaggi storici noti e meno noti. È, in buona sostanza, la storia come piace a noi. Da persone innamorate dei libri, non potevamo non accogliere un’opera del genere in una collana che dedica largo spazio a memoriali e autobiografie. Se condividete con noi entrambe queste passioni, i libri e la storia, non ci sarà bisogno di augurarvi una buona lettura: siamo certi che lo sarà.

Marcello Donativi