Prefazione a
Il Sergente Romano – Il brigantaggio politico delle Puglie dopo il 1860 – Antonio Lucarelli
“Per stare alla bell’e meglio in piedi, il nostro paese ebbe subito bisogno di appoggiarsi all’esteriorità, alle finzioni, alle commozioni, e questo s’ottenne usando, soprattutto, le iniziali maiuscole: Patria, Stato, Popolo, Nazione, Religione, Risorgimento, Fascismo, Resistenza, Scuola, Casa e via dicendo. Quando ci accorgiamo che qualcosa difetta di sostanza, noi la scriviamo con l’iniziale maiuscola, in questo modo conferendole una specie di garanzia immunitaria, che la mette al riparo dal buonsenso e dalla critica”. Così scriveva con sarcasmo Giuseppe Berto in un dimenticato saggio di molti anni fa.
Bisogna convenire che non avesse tutti i torti. Mi sentirei però di aggiungere che, oltre alle intoccabili parole con l’iniziale maiuscola, ce ne sono anche alcune di cui è generalmente bandito l’uso, o quantomeno è consentito soltanto in certi contesti. Ne parlavamo alcuni anni fa, a proposito del termine rivoluzione. Ampiamente utilizzato nel Risorgimento a indicare i moti liberali del movimento nazionale, sia da parte di chi lo sosteneva che di chi l’avversava, è in seguito caduto in disuso. Al giorno d’oggi, l’Unità d’Italia, per l’uomo della strada, è tutto tranne che una rivoluzione. Analogamente, questa parola è stata usata dalla propaganda del Ventennio, che amava parlare di Rivoluzione Fascista. Ma, dopo di allora, è quasi scomparsa dalla narrazione della nostra storia: per l’italiano comune di oggi, la rivoluzione è quella francese, quella russa, quella cinese, cubana etc., al massimo l’abbiamo sentita evocare, nella storia repubblicana, come un desiderio o un progetto; ma che nella storia d’Italia fossero mai avvenute rivoluzioni, questo non s’è più sentito.
Similmente avviene per guerra civile. Gli italiani, che abbiano o no da secoli consapevolezza di essere un unico popolo, non per questo si sono mai tirati indietro dall’uccidersi a vicenda. La storia della nostra penisola è un continuo di guerre fratricide, al punto da pensare a volte che spararci l’un l’altro sia uno sport più popolare del calcio; eppure, guai a parlare di guerra civile.
Se ne accorse Beppe Fenoglio, quando nel 1952 stava per pubblicare per Einaudi la sua prima raccolta di racconti, per metà dedicati alla lotta partigiana. Il titolo indicato dall’autore era Racconti della guerra civile. Elio Vittorini, consulente per Einaudi, si oppose in quanto chiamare guerra civile lo scontro tra partigiani e nazifascisti avrebbe suscitato troppo scandalo, e dopo una serie di controproposte il volume fu intitolato, come è tuttora, I ventitré giorni della città di Alba.
E sta bene, direte voi, ma qui stiamo conversando dalle pagine di un saggio sul brigantaggio: qual è il nesso? Ecco, un capitolo del libro che presentiamo – uno dei passi più significativi – si intitola per l’appunto La guerra civile.
Fa strano, immagino, sentire questa espressione nell’ambito di un’analisi del brigantaggio post-unitario, un fenomeno interpretato nel corso del tempo nei più svariati modi, ma quasi mai in termini di scontro fratricida. Per i contemporanei di vedute liberali, il brigantaggio era qualcosa da ascrivere ai fenomeni della reazione, quindi l’opposizione armata di pochi retrogradi al procedere del Progresso (parola in maiuscolo); in altri casi era visto come una eredità del precedente malgoverno meridionale, incapace di contrastare delle bande di predoni se non proprio loro complice; quindi siamo nell’ambito della criminalità comune. Successivamente si è fatta strada un’interpretazione socialista che lo vedeva come ribellione del ceto povero contro lo sfruttamento della vittoriosa borghesia liberale; quindi siamo dalle parti della lotta di classe. In tempi più recenti, un rinato meridionalismo ha ripreso un’interpretazione già in voga presso i filoborbonici ottocenteschi, che vede quella delle bande contadine come un’insurrezione contro l’invasore straniero, pertanto una guerra partigiana. Più sbiadito, invece, al giorno d’oggi l’aspetto mistico, propugnato sempre dai filoborbonici dell’epoca, per cui aveva un gran peso la lotta contro dei traditori della Chiesa, complici di invasori che facevano guerra al Papa, incarceravano i sacerdoti e chiudevano a forza i conventi; insomma, una guerra di religione.
Intepretazioni, queste, che contengono ciascuna un fondo di verità. Ma perché, allora, Antonio Lucarelli, storico originario della provincia di Bari, vedeva quelle vicende come una guerra civile?
Una risposta è negli avvenimenti narrati nel citato capitolo: la sanguinosa giornata del 28 luglio 1861 a Gioia del Colle.
Erano passati appena otto mesi dal plebiscito che aveva sancito l’annessione delle provincie meridionali al nascente Regno d’Italia, e circa quattro dalla proclamazione ufficiale del nuovo stato. La tensione si percepiva nell’aria. I simpatizzanti del vecchio regime borbonico iniziavano a tramare per rovesciare il nuovo ordine, e i numerosi arresti, giustificati o no, nei confronti di chi fosse sospettato di avversare lo stato unitario non bastavano a calmare le acque. Al contrario, la chiamata alla leva obbligatoria lanciata ai primi di luglio, che colpiva per lo più ex soldati dell’esercito delle Due Sicilie, aveva portato molti di loro a darsi alla macchia, nascondersi in campagna e formare i primi nuclei di quelle che a breve sarebbero diventate le bande di briganti. Il 24 luglio un caporale della Guardia Nazionale gioiese fu ucciso in un’imboscata tesa da alcuni sbandati: conseguenza fu la decisione, da parte della Guardia, di radunare quante più forze possibili e pianificare una retata nel vicino bosco di Vallata, luogo di raduno dei renitenti. Il risultato fu di lasciare Gioia del Colle quasi del tutto sguarnita di difese.
Fu così che la mattina del 28 luglio le vedette poste sulla torre del Castello avvistarono con preoccupazione una colonna di ribelli marciare verso il paese. I pochi nazionali rimasti a difesa del borgo cercarono in tutti i modi di contenere l’assalto, senza troppo successo: ne scaturì una battaglia tra le strade di Gioia che si protrasse per diverse ore. Quel che è peggio, la notizia della rivolta dette il via a tutta una serie di vendette intestine tra i paesani: in breve si scatenò la caccia ai complici del nuovo regime, che fossero ex garibaldini, notabili con incarichi istituzionali o loro parenti. Numerosi episodi di violenza sono registrati in quelle ore, che non risparmiarono donne e bambini. Soltanto nel tardo pomeriggio arrivarono i rinforzi dei nazionali, sotto forma di reparti della Guardia ma soprattutto di un plotone dell’esercito italiano. Ribaltatosi il rapporto di forze, i ribelli tentarono la fuga, ma alla maggior parte di loro fu sbarrata la strada e si ripeterono, al contrario, le scene di violenza del mattino, con un numero incerto di vittime. Molti sopravvissuti furono giudicati nei giorni successivi da un improvvisato tribunale di guerra, che comminò qualche decina di condanne a morte e un centinaio di condanne alla reclusione.
I più attenti avranno fatto caso a un dettaglio: in questa ricostruzione dei fatti, soltanto alla fine arriva un reparto dell’esercito regolare, un corpo cioè presumibilmente ancora composto in maggior parte di soldati provenienti dal centro-nord Italia. Per la maggior parte dell’evento, gli scontri avvennero tra persone provenienti da Gioia o, tutt’al più, dai paesi limitrofi. Ecco acquistare un senso l’espressione guerra civile che dà il titolo al capitolo di questo libro.
Il punto è che il brigantaggio post-unitario, come suggerito sopra e anche in altre occasioni in passato, è stato un fenomeno complesso, dalle molte sfaccettature. A volte ci si dimentica però che fu in larga parte anche uno scontro interno al Mezzogiorno d’Italia. Se si esclude la presenza dell’esercito ex piemontese e neo-italiano, importante ma non l’unica forza belligerante in campo, le fazioni erano composte da persone provenienti dalla stessa terra, imparentate per lingua, cultura, tradizioni. Fu una sporca guerra che divise le comunità, i paesi, a volte anche le famiglie. Come in quasi tutte le guerre civili, le motivazioni più disparate spingevano una persona ad aderire a questa o quella parte: l’ideologia, ovviamente, ma anche il tornaconto personale o addirittura il caso. Da un lato vi erano liberali per convinzione e liberali per convenienza; oppositori di vecchia data dei Borboni e antichi loro sostenitori che avevano cambiato casacca, soldati volontari e soldati costretti a combattere dalla leva obbligatoria. Dall’altro lato il quadro era forse ancora più variegato: militari sbandati del vecchio esercito borbonico che faticavano a reinserirsi nella vita civile, renitenti alla leva obbligatoria del nuovo esercito italiano, ex guerriglieri garibaldini delusi dagli esiti della spedizione dei Mille, contadini che si sentivano traditi dalle mancate promesse di distribuzione delle terre, sostenitori dei Borboni perseguitati dal nuovo regime, non ultimi delinquenti comuni che intravedevano la possibilità di arricchirsi col saccheggio e l’estorsione. Spesso queste motivazioni si sovrapponevano e confondevano tra di loro nella stessa persona. In questo marasma, una figura si stagliava però per la chiarezza dei suoi intenti e delle sue motivazioni: il capo che aveva guidato l’assalto dei ribelli a Gioia del Colle.
Già dalla sua prima apparizione in questo libro, si intuisce una certa differenza con i colleghi. Il fenomeno del banditismo non era certo nuovo nel 1861, era anzi sufficientemente radicato da avere imposto anche alcuni stereotipi, come quello sull’abbigliamento del brigante: di solito una variazione degli abiti dei pastori e dei contadini, con pelli di pecora e cappelli a punta. Il capo dei ribelli di Gioia, invece, avanzava avvolto in una giamberga, una sorta di cappotto signorile, e, oltre alle armi da fuoco in spalla e nella cintura, agitava una sciabola; accanto a lui, un paio di suoi fedeli sventolavano le bandiere bianche dei Borboni. Sembrava, insomma, voler dare di sé l’immagine non di un pastore rivoltoso, ma dell’ufficiale a capo di un’armata regolare.
In effetti soldato lo era, o lo era stato, senza tuttavia mai andare oltre il grado di sottufficiale. Pastore non era, ma quella era la sua estrazione. Il suo nome era Pasquale Domenico Romano.
All’epoca aveva 28 anni. Era nato nel 1833 a Gioia del Colle, figlio appunto di pastori. Una volta maggiorenne, si era arruolato nell’Esercito delle Due Sicilie, raggiungendo il grado di primo sergente nel V Reggimento “Borbone” della fanteria di linea; e l’appellativo di “sergente” gli resterà fino ai giorni nostri, tanto da dare il titolo al libro che avete tra le mani. Agli inizi del 1861, mentre nella roccaforte di Gaeta erano asserragliati gli ultimi rimasugli dell’esercito fedele a Francesco II, come molti commilitoni aveva dovuto smettere la divisa e fare ritorno al suo paese. L’esercito per cui combatteva non esisteva più, il Re a cui aveva prestato giuramento era stato cacciato dal trono. Ora, dobbiamo cercare per un attimo di capire cosa potesse significare la carriera militare per un figlio di pastori dell’epoca. Era un’occasione piuttosto unica di riscatto sociale: voleva dire viaggiare, indossare begli abiti, spesso era l’unico modo per imparare a leggere e scrivere. Le scarne notizie che abbiamo del Romano ce lo dipingono a volte come un vanitoso, uno che non accettava fino in fondo le sue origini popolane, ma questo è comprensibile: se sei partito dal paesello scalzo e vestito di pecora e fai ritorno con gli stivali ai piedi e, soprattutto, un’istruzione nella testa, è ben difficile che tu possa sentirti a tuo agio. Questo problema, a quei tempi, investì un largo numero di reduci.
Le opzioni erano poche: accettare di essere arruolato nell’Esercito Italiano, il che era una libera scelta per gli ufficiali, ma un obbligo per quelli in età di leva; oppure adattarsi nuovamente alla vita civile, quindi tornare a fare il pastore o il contadino. Il primo caso permetteva di continuare la vita militare, ma il prezzo da pagare era di doverlo fare accanto a gente che fino a qualche settimana prima era il nemico. In molti fecero questa scelta, anche se in qualche caso se ne dovettero pentire; pochi idealisti la ritenevano moralmente inaccettabile, anche perché si trattava dello stesso esercito che aveva non soltanto invaso il Regno delle Due Sicilie, ma anche lo Stato Pontificio. Erano in ballo, insomma, anche delle motivazioni di ordine religioso. Pasquale Romano era probabilmente tra questi.
Non restava allora che tornare alla vita civile, il che però non solo comportava il carico di frustrazione di questo “fallimento” nella scalata sociale, ma esponeva spesso gli ex soldati, come in generale tutti quelli che avevano ricoperto delle cariche sotto i Borboni e non avevano cambiato casacca, a ogni sorta di angheria parte dei vecchi o nuovi liberali, rendendoli una specie di paria della società. Non lo sappiamo con certezza, ma anche il nostro dovette passare qualche sventura del genere, così come suggerisce Lucarelli nel capitolo IV di quest’opera. Anche questo fenomeno contribuì a causare una frattura nella società del meridione e favorire il clima di guerra civile. Da una parte, molti liberali sentivano arrivato il momento della rivalsa sui borbonici, a costo anche di perseguitare chiunque, indipendentemente dalle effettive responsabilità personali; dall’altro lato, molti sostenitori del vecchio regime sentivano di essere circondati e vessati da una massa di traditori e, come detto in precedenza, nemici della Chiesa.
Ecco allora farsi strada la terza opzione, la più difficile, la più radicale: aderire ai tanti comitati borbonici che fioccavano clandestinamente, darsi alla macchia e combattere per ripristinare l’antico stato di cose. C’è da sottolineare come i comitati clandestini offrissero anche un pagamento in cambio della prestazione “militare”, quindi molti aderirono anche per sopperire a una condizione economica precaria, davanti alla promessa di un soldo mensile.
Per riassumere, per molti reduci, come Pasquale Romano, la decisione di partecipare alla ribellione sono da ricercare in una necessità economica senz’altro, ma soprattutto in forti motivazioni personali di carattere politico e religioso.
Ecco, dunque, in cosa il sergente Romano appare, non solo a noi ma anche ai suoi contemporanei, così diverso da altri capi briganti. Prendiamo, ad esempio, una delle figure più famose: il lucano Carmine Crocco di Lagopesole. Crocco era una figura a suo modo ambigua: sin da giovane aveva vissuto ai limiti della legalità, e nel corso degli anni aveva sposato cause molto diverse tra loro. Prima soldato dell’esercito borbonico, in seguito criminale comune (compresi alcuni anni in una colonia penale), e ancora di seguito volontario garibaldino, ribelle legittimista, capo di una banda dedita al taglieggio e all’estorsione. Un susseguirsi di scelte di vita a volte contraddittorie, il cui unico comune denominatore era, nella maggior parte dei casi, la ribellione allo status quo, ma senza un particolare carattere ideologico. Pasquale Romano ci appare, al contrario, abbastanza ben caratterizzato dal punto di vista delle idee: dotato di un fervore cattolico ai limiti del misticismo, con la convinzione, illusoria o meno che fosse, di combattere una sorta di crociata a favore della religione e delle legittimità monarchica. Al punto che anche Giuseppe Massari, l’ex cospiratore liberale che, da deputato, fu a capo della commissione parlamentare sul brigantaggio che spianò la strada alla famosa legge Pica, ebbe a dichiarare: “Codesto brigante non era così abietto come gli altri: aveva coraggio e difatti morì combattendo; nella sua indole era uno strano miscuglio di bieco fanatismo e di rozza pietà, nè la consuetudine del delitto gli aveva soffocato ogni senso di onestà”.
Questo spiega anche la fortuna che in tempi recenti ha sempre più acquisito la figura storica del sergente Romano, soprattutto negli ambiti del cosiddetto revisionismo del Risorgimento. Rispetto ad altri personaggi, per giustificare il cui operato bisogna a volte – non vogliatecene – arrampicarsi sugli specchi, il Romano appare una figura più pulita, un idealista, costretto dalle circostanze a combattere una guerra sporca, spesso in compagnia di molti delinquenti comuni. Come scrive lo stesso autore di questo saggio: “Anche lui, arrogandosi qualità di leale belligerante, s’illuse di condurre contro la nascente compagine italiana una schiera disciplinata d’insorti politici; ma ben presto si accorse di capeggiare una bruta e famelica ciurmaglia.”
Non resta che spendere due parole su quest’opera e sul suo autore. Antonio Lucarelli, nato nel 1874, quando il fenomeno del brigantaggio era ormai in declino e prossimo alla scomparsa, dedicò buona parte delle sue opere di storico nella ricerca sui briganti della sua regione, la Puglia. In questo saggio, pubblicato inizialmente nel 1922 ma di cui presentiamo la seconda edizione del 1946, affronta le vicende del sergente Romano basandosi su una ricchissima mole di documenti d’archivio. Ma, più di tutto, lo fa con un’encomiabile imparzialità, analizzando le varie motivazioni, politiche e soprattutto sociali, che avevano portato a quella orrenda guerra civile, e senza nascondere le mancanze della parte liberale, per cui dopo tutto parteggiava:
La storia degli ultimi eventi nazionali, da noi poco nota, è stata scritta sovente con preordinati concetti: mettere, cioè, in mala luce la soccombente fazione legittimista e levar su, per malintese ragioni di patriottismo, il partito unitario trionfante. Un borbonico, che serbasse devozione alla spenta dinastia o ne sostenesse la causa per ovvie ragioni di convenienza, doveva essere ad ogni costo un cittadino spregevole, indegno dell’umano consorzio; un liberale, invece, quale che ne fosse il contegno morale e civile, doveva essere un gentiluomo degno di stima e di rispetto, in grazia delle sue patriottiche benemerenze, vere o fallaci.
Marcello Donativi