Prefazione a
Una donna alla Prima Guerra Mondiale – Louise Mack
Siamo a Sydney, Australia, negli anni ’20 del secolo passato. Nancy Phelan è un’adolescente che non ha mai lasciato il proprio paese ed è cresciuta in una grande famiglia allargata, il cui pilastro è la nonna Jemima Mack, vedova di un predicatore cristiano-evangelico. La famiglia si regge su princìpi solidi e talvolta rigidi (guai a consumare dell’alcol!), ma per molti aspetti non è bigotta come si potrebbe pensare. Contrariamente alla mentalità dell’epoca, le donne di casa – tradizionalmente numerose – sono da sempre state incoraggiate a studiare, crearsi una vita indipendente e intraprendere qualunque professione, specialmente creativa. Non è un caso se, alla fine dei conti, la discendenza di Jemima produrrà almeno tre scrittrici. Una è Nancy, che lo diventerà negli anni successivi. La seconda è sua zia Amy, all’epoca già affermata giornalista e autrice per l’infanzia. Quanto alla terza, costituisce l’avvenimento del giorno. In quei giorni, infatti, nella famiglia Mack sono tutti in fremito: dopo circa venti anni, è tornata a vivere a Sydney la figlia più grande di Jemima. Quella che ha girato il mondo, e ha vissuto in Inghilterra, in Italia, in Francia. Quella che ha avuto il maggiore successo editoriale e ha conosciuto – o millanta di averlo fatto – le più grandi personalità del mondo letterario. La figlia ribelle, nota tanto per la creatività quanto per il pessimo carattere. È tornata Marie Louise Mack.
Nancy, nel corso degli anni, ne ha sentito parlare fino allo sfinimento. Louise è diventata per la famiglia una sorta di celebrità, le cui imprese in giro per il mondo si narrano come un racconto epico attorno al fuoco. È perciò molto curiosa di conoscerla, ma allo stesso tempo prova un’istintiva, adolescenziale diffidenza. E infatti il primo approccio è deludente. Si rende conto che, nei racconti di famiglia, la zia era rimasta come cristallizzata nel tempo, quasi dovesse essere per sempre la giovane donna col viso di bambina che aveva lasciato l’Australia nel 1901. Vent’anni non passano però invano e quella che si trova davanti è una signora di mezza età, per quanto ancora gradevole pur sempre segnata dal tempo. Eppure, col passare dei giorni, comincia a essere affascinata da quella figura che, per il modo di fare, non si sognerebbe mai di chiamare zia. Le sorelle sono zie; lei è semplicemente Louise, o meglio Louie.
Si è trasferita con il secondo marito nella frazione di Chatswood, dove ha preso in affitto un piccolo cottage pomposamente ribattezzato Villa d’Este, in ricordo del suo soggiorno italiano. Presto il villino sarà trasformato in un santuario di cimeli dall’Europa, odoroso di olio, aglio e – scandalo! – vino e tabacco. “Andarla a trovare” scrive Nancy “era per me come viaggiare all’estero.” Qualunque oggetto in casa ha una storia, vera o no che sia. La cena è stata cotta nello stesso paiolo a suo tempo utilizzato da un cuoco fiorentino, i piatti in cui è servita vengono da Parigi. E se l’ospite nota uno scialle poggiato da qualche parte, la padrona di casa commenterà con finta noncuranza: “Ah sì, quello è un regalo di Eleonora Duse.” È troppo per non colpire la fantasia di una adolescente: qualche anno più tardi, Nancy seguirà le orme della zia e lascerà l’Australia per vedere il mondo. E la figura di Louie le resterà talmente impressa da indurla a scrivere, settant’anni più tardi, quella che ad oggi è l’unica sua biografia.
«UN COACERVO DI CONTRADDIZIONI»
Marie Louise Mack nasce il 10 ottobre 1870 a Hobart Town, in Tasmania. Il padre Hans è un irlandese trasferitosi in Australia per esercitare il suo ministero presso la Chiesa Evangelica. Qui ha conosciuto e sposato l’allora diciottenne Jemima, che gli darà ben tredici figli. Louise è la settima, la prima femmina. La famiglia è una specie di carrozzone itinerante, costretta com’è dalla missione del padre a spostarsi in continuazione tra la Tasmania e diversi punti dell’Australia. In seguito alla malattia e alla successiva morte di Hans, ne guadagneranno in stabilità geografica ma non certo in sicurezza economica e vivranno anni duri nella nuova sede stabile di Sydney. Ma Jemima doveva essere una donna forte. Non soltanto assunse su di sé il peso della famiglia, ma non volle mai recedere da un punto fermo: costasse quel che costasse, i suoi figli – comprese, o dovremmo dire soprattutto, le figlie femmine – avrebbero ricevuto quell’educazione che lei, a gran fatica, era riuscita a conquistare soltanto da autodidatta. Ove non fosse possibile mandarle a scuola o da un istitutore, ci avrebbe pensato in prima persona.
Proviamo adesso a sommare tutti questi elementi e avremo già un quadro piuttosto chiaro degli ingredienti che porteranno a definire il carattere di Louise Mack. L’amore per la cultura, certo, ma anche l’incapacità di legarsi del tutto a qualcosa o qualcuno. Una micidiale combinazione di curiosità e irrequietezza che l’animava già da ragazzina e non la abbandonerà mai. Leggiamo, ad esempio, come la sua biografa ci descrive la Louise adolescente:
Era un coacervo di contraddizioni: voleva comportarsi da adulta, eppure amava la vita infantile delle sorelle minori; desiderava viaggiare e vedere il mondo, eppure sentiva di non poter mai lasciare l’Australia; voleva essere libera e indipendente, ma restava avvinghiata ai suoi familiari, assaporando ogni singolo dettaglio della loro vita caotica, che avrebbe poi utilizzato nei suoi libri. Era piena di spirito, energia, azione, idee originali, ma talvolta cadeva preda della malinconia e si chiudeva a leggere o scrivere poesie sull’amore perduto e le illusioni, giardini abbandonati, porte sbarrate soffocate da piante rampicanti o sulla Morte che la prende per mano. Scriveva “sono stanca, stanca, stanca di vivere…” e ogni tanto si convinceva che non sarebbe vissuta a lungo; e poi di colpo si liberava della disperazione e godeva nuovamente la vita. Solo in due cose era coerente: l’amore per la bellezza e l’ambizione di scrivere.
Non doveva però essere facile all’epoca per una donna essere ammessa nel mondo letterario.
A tal proposito si racconta un aneddoto. Nel 1893 Louise sottopose alla rivista The Bulletin una sua poesia intitolata Soul Flight. La lettera riportava la scarna firma M.L.Mack. Qualche giorno più tardi, con grande sorpresa, ricevette una risposta da parte del direttore Jules François Archibald, che la convocava nel suo ufficio per un colloquio. La lettera iniziava però con “Caro Signore…”
Grande fu la sorpresa di Archibald quando si trovò davanti una donna. Non sappiamo se con l’intento di farle un complimento, ammise di essere stato convinto che Soul Flight fosse stata scritta da un uomo. Restò comunque affascinato da quella figura e la prese sotto la sua ala protettiva. Fu l’inizio di una collaborazione costante, non soltanto col Bulletin, ma anche con altre riviste, e l’avvio ufficiale di una carriera letteraria.
Dopo il primo romanzo The World is Round, il successo arrivò nel 1895 con Teens, cui dette un seguito intitolato Girls Together. I due potrebbero tranquillamente essere liquidati sotto l’etichetta di letteratura per l’adolescenza: sono vicende che hanno per protagoniste ragazzine di scuola superiore e i lettori che ne decretarono il successo avevano la stessa età e li apprezzavano per un comprensibile meccanismo di immedesimazione. Tuttavia, gli eventi narrati erano per lo più veri, avendo l’autrice saccheggiato a man bassa gli aneddoti della sua famiglia. Il meccanismo funzionava, la nostra era additata come la più promettente autrice del suo paese. Poteva essere l’inizio di un filone d’oro.
Ma l’irrequietezza di Louise aveva la meglio su qualunque successo. Le ambizioni letterarie, la voglia di vedere il mondo, la sensazione di essere limitata che provava a vivere nella lontana Australia. Se si aggiunge il fallimento del primo matrimonio, l’aria era diventata per lei soffocante. Nel 1901 abbandonò tutto e tutti e si imbarcò per l’Inghilterra. All’età di trent’anni iniziava una nuova vita.
Non fu una vita facile. Senza un soldo in una terra straniera in cui era praticamente sconosciuta, una volta passato l’iniziale entusiasmo per la novità, patì letteralmente la fame. Tutto questo le portò comunque materiale per un nuovo romanzo di ispirazione autobiografica: nel 1902 usciva An Australian Girl in London. Se riuscì ad alleviare soltanto in parte le sue difficoltà finanziare, fu comunque molto ben accolto dalla critica.
Ma a questo punto il lettore si sarà fatto un’idea abbastanza precisa del carattere girovago della Mack; non si farà dunque troppe illusioni che la nostra potesse restar ferma a godere il successo. Con un nuovo colpo di testa, e senza fornire troppe spiegazioni in merito, nel 1904 lasciò Londra e si trasferì a Firenze. Per alcuni anni si mantenne scrivendo per la Italian Gazette, una rivista della comunità anglosassone fiorentina, e allo stesso tempo lavorava a un nuovo romanzo, Children of the Sun, che ancora una volta pescava dai ricordi dell’infanzia in Australia. Il romanzo vendette bene, Louise amava l’Italia, che chiamava la sua patria spirituale. Eppure, neanche in questo caso riuscì a trovare una stabilità. Per circa due anni, semplicemente non si hanno sue notizie. Si presume fosse ancora in Italia, ma non se ne ha la certezza. Quando ricomparve sulla scena nel 1910, era tornata a Londra.
Qui, spinta dal bisogno, riallacciò i contatti con un editore per il quale anni prima aveva pubblicato un romanzo rosa a puntate. All’epoca le era costato uno sforzo enorme abbassare il livello della sua scrittura per venire incontro ai clichés necessari al genere. Nel momento in cui riprese l’attività, fece invece una curiosa scoperta: iniziava a prenderci gusto. Ben presto si trasformò in una sorta di macchina automatica per la produzione di romanzi d’appendice. Si racconta che, per fare prima, avesse preso l’abitudine di non scriverli direttamente, ma dettarli a voce, mentre passeggiava per la stanza consultando schemi di personaggi e appunti sulle trame. Scrivere in questo modo era piuttosto semplice, tanto i personaggi e gli intrecci erano grosso modo gli stessi: un’eroina buona, un uomo ricco e affascinante destinato a sposarla, un’antagonista cattiva, uno o due misteri, un evento delittuoso – meglio un furto che un omicidio, perché meno truce – e possibilmente un colpo di scena alla fine di ogni capitolo. A volte l’unica cosa che cambiava era l’ambientazione: ora Londra, ora l’Italia, ora l’Australia.
I suoi familiari erano sorpresi e da un certo punto di vista delusi: mai avrebbero immaginato che un’idealista come Louise potesse prostituire la usa arte per denaro. Eppure, qualcosa lascia pensare che stesse soltanto, con sorprendente cinismo, prendendo in giro il mondo. Dopotutto, le eroine di questi romanzi era quanto di più lontano da lei: laddove lei era una donna indipendente, che aveva sempre preferito la libertà personale a qualsiasi legame, quelle erano figurine intagliate del peggior luogo comune tradizionalista, tutte donnine dal cuore candido con il sogno di trovare l’uomo forte che le avrebbe dominate.
Louise Mack era ormai la Queen of Romance. Nel 1914, però, un avvenimento inaspettato mutò non soltanto la sua vita, ma un’intera epoca. A distanza di un solo braccio di mare, l’esercito tedesco invadeva il Belgio. L’Inghilterra interveniva in sua difesa: era lo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Non era più tempo per le storie romantiche. Allora Louise cambiò nuovamente pelle. Dopo essere stata la voce delle adolescenti australiane, la bohémien londinese, l’autrice affermata di romanzetti rosa, assunse per sé un nuovo, inaspettato, ruolo: la corrispondente di guerra.
LO STUPRO DEL BELGIO
Al giorno d’oggi, quando primeggiano nella memoria le tragedie, probabilmente di portata maggiore, della Seconda Guerra Mondiale, se ne è sbiadito il ricordo, ma all’epoca per l’opinione pubblica l’invasione tedesca del Belgio costituì un avvenimento a dir poco scioccante. Il piano tedesco per l’invasione della Francia (il cosiddetto Piano Schlieffen) prevedeva di varcare la frontiera nemica non dall’Alsazia e la Lorena, come sarebbe stato più scontato, ma da nord, attraverso le Fiandre. Il piccolo particolare è che ciò comportava il passaggio per un paese neutrale. Il 2 agosto 1914 la Germania lanciò al Belgio un ultimatum di dodici ore per consentire il transito delle sue truppe. Pensavano forse con ingenuità che i fiamminghi, spaventati, si sarebbero fatti da parte. Il Belgio però rifiutò con sdegno, trascinando in guerra la Gran Bretagna garante della sua neutralità. Il 4 agosto l’esercito tedesco varcava la frontiera belga: presto il piccolo stato sarebbe stato interamente occupato e tale rimase fino alla fine della guerra. Tuttavia, l’operazione non fu la scampagnata che alcuni ufficiali tedeschi avevano immaginato e, quanto più vale, comportò una serie di distruzioni e violazioni dei diritti umani tale da scandalizzare il mondo. L’eroica resistenza dei Belgi, che assunse presto carattere di guerriglia e coinvolse anche la popolazione civile, portò rapidamente a rappresaglie di inaudita violenza. Oltre a singoli casi di arresti e fucilazioni, intere città furono date alle fiamme o distrutte dall’artiglieria e divennero tristemente famosi i nomi di Hevre e Lovanio, mentre migliaia di profughi si riversavano verso i confini olandesi in cerca di salvezza. Naturalmente, ciò non passò inosservato alla macchina propagandistica dell’Intesa: questa ebbe buon gioco ad aumentare a dismisura la portata delle violenze e dipingere i Tedeschi come una sorta di nuove orde barbariche da respingere, pena la distruzione della civiltà occidentale. Fu in quest’ambito che venne coniata l’espressione Stupro del Belgio.
Era materiale troppo ghiotto per il giornalismo. I lettori inglesi erano avidi di ricevere notizie su questo moderno scontro tra Davide e Golia, tra il piccolo, eroico esercito belga e una delle macchine da guerra più devastanti dell’epoca.
Louise riuscì a convincere Alfred Harmsworth, editore del Daily Mail, a inviarla in Belgio per scrivere alcune corrispondenze per il suo giornale. Ora, se al concetto di donna scrittrice ci si iniziava ad abituare, lo stesso non si può dire per i reporter di guerra. Quella bellica era, com’è forse ancora, un’attività quasi del tutto maschile, nella quale alla donna difficilmente erano assegnati altri ruoli all’infuori dell’infermiera e della vedova. Harmsworth, però, che certo non difettava di inviati al fronte, dovette ritenere una buona idea quella di avere anche una corrispondente donna, in grado di fornire ai lettori degli aspetti differenti del conflitto; o forse semplicemente cedette davanti alle insistenze della sua collaboratrice.
Tuttavia la Mack non era inizialmente considerata un corrispondente al pari degli altri. Ad esempio, non fu inviata in vere e proprie zone di combattimento, ma nelle retrovie, dove non avrebbe corso eccessivi rischi. Un riguardo che nasceva da un misto di pregiudizio e volontà di proteggerla, al quale però si sottrarrà appena possibile. Significativo è l’aneddoto che racconta nel secondo capitolo di queste memorie. Raggiunta Anversa, divenuta sede provvisoria del governo dopo la caduta di Bruxelles, una sera incontra Frank Fox, giornalista australiano che aveva conosciuto al tempo in cui scrivevano entrambi per The Bulletin. I due scoprono con sorpresa di essere lì per lo stesso motivo. Fox afferma con solennità che il suo compito è quello di restare a tutti i costi per raccontare ogni cosa ai lettori; Louise risponde che per lei è lo stesso; ma Fox ribatte che no, nel caso di lei è diverso, appena ci sarà sentore di pericolo dovrà mettersi in salvo. Commenta con sarcasmo l’autrice: “Dal momento che era maschio e per giunta australiano, non valeva la pena di discutere ulteriormente con lui.” E infatti, lì per lì cambia discorso; ma nel corso degli avvenimenti successivi, che lasciamo al lettore di scoprire nel corso di questo libro, Louise Mack non perderà alcuna occasione per soddisfare la propria curiosità a rischio dell’incolumità personale, spesso dimostrando un coraggio, o incoscienza che dir si voglia, superiore a quello di tanti suoi colleghi maschi.
Ma non si deve pensare a Louise Mack come una sorta di femminista, almeno non nel senso riduttivo e macchiettistico, cui spesso si fa ricorso, di un’astiosa androgina. Di fatto non volle mai aderire ad alcun movimento femminista; probabilmente, come suggerisce la sua biografa, non vedeva perché avrebbe dovuto spendere energie per aiutare altre donne a ottenere quell’indipendenza che si era procurata da sola senza bisogno di partecipare a manifestazioni o agitare cartelli.
Così, quando si trova ad affrontare il mostro terribile della guerra, non si pone mai in competizione col mondo maschile che le è attorno. Anzi, si diverte quasi a raccontarci le mille situazioni surreali di una inviata di guerra agli albori del XX secolo.
Abbiamo così la Mack che parte per una zona di guerra portandosi dietro un’enorme valigia di abiti, compresi costosi foulard, che sarà destinata a perdere tutti; la Mack che passeggia in compagnia di due ufficiali dell’esercito e, mentre camminano, le cade un involto contenente un paio di eleganti scarpe da sera, cioè l’oggetto più inutile in una città sotto assedio; la Mack che durante l’attacco notturno di uno Zeppelin, prima di prendere la via delle scale dell’albergo, si ferma un minuto a incipriarsi il viso. Dettagli tutti che racconta con autoironia, senza per questo temere di perdere credibilità: quando il momento lo richiederà, saprà dimostrare il coraggio necessario, e proprio l’essere donna le sarà di aiuto. Soltanto una donna, dopo la conquista di Anversa, avrebbe potuto travestirsi da cameriera pur di spiare il comportamento dei conquistatori tedeschi appena entrati in città. Soltanto una donna avrebbe potuto attraversare così tanti pericoli e riuscire a camuffarsi, passare inosservata e tornare viva.
ASCESA E DECLINO DI UN’EROINA
Al ritorno in Inghilterra Louise era ormai diventata una celebrità. Subito vendette a un editore i diritti su un libro di memorie sulla guerra, che avrebbe scritto assemblando in parte gli articoli già inviati al giornale. Annunciato da una insistente campagna pubblicitaria, agli inizi del 1915 era pubblicato A Woman’s experiences in the Great War. Il successo fu immediato. Louise fu presto eretta dall’opinione pubblica al rango di una sorta di eroina, come se avesse, lei da sola, combattuto al fronte e sbaragliato l’esercito tedesco.
Certo, non mancarono le critiche. Le più dure provennero dalla sorella Amy, l’altra scrittrice di famiglia, sempre un po’ divisa tra l’affetto fraterno e una certa gelosia. Costretta dall’improvvisa assenza di Louise a occuparsi dell’editing dell’opera, ne dette, in privato, un’impietosa stroncatura:
Il materiale era buono, ma era pieno di sciocche imprecisioni, e ovviamente era urlato più che scritto. Pieno di propaganda di guerra, quel genere di cose che piacevano all’editore, odio verso i Tedeschi e minacce di vendetta. Un misto di giornalismo sensazionalistico e patriottismo sentimentale, a cui mai pensavo che Louise si sarebbe abbassata. Ma alla gente piacque e il libro fu un grande successo.
Da un certo punto di vista, furono proprio gli eccessi del libro a decretarne il successo. La gente faceva la fila alle letture pubbliche dell’opera, per commuoversi all’idea del grande scontro di civiltà che avveniva dall’altra parte della Manica e coinvolgeva così tanti giovani Inglesi. La Croce Rossa voleva la presenza dell’autrice per pubblicizzare la raccolta fondi. Il Governo era contento della sua demonizzazione dei Tedeschi, che così tanto bene faceva alle campagne per l’arruolamento dei volontari. La Mack, da parte sua, assunse volentieri su di sé tale ruolo e lo recitò fino in fondo. A ogni incontro pubblico era sempre pronta a estrarre dal cilindro nuovi aneddoti di guerra non raccontati nel libro, molti dei quali via via arricchiti e ingigantiti e alcuni di dubbia veridicità. Come il suo incontro con Edith Cavell, la famosa infermiera inglese fucilata dai Tedeschi.
La nuova fama le dette l’occasione per fare ritorno in patria. Approfittando dell’invito della Croce Rossa a tenere una serie di conferenze, nel 1919, a guerra ormai finita, dopo quasi venti anni lasciò Londra per l’Australia. Annunciò che si sarebbe trattato di una breve visita di sei mesi, per rivedere la madre e le sorelle; ma non tornerà più in Inghilterra. Dopo qualche anno in giro per il Continente, si ripresentò in famiglia accompagnata da un nuovo marito. Non poteva saperlo, ma era l’inizio della parabola discendente della sua vita.
Presto vedova per la seconda volta (il marito era già gravemente malato al momento del matrimonio), cercò di vivere una seconda stagione letteraria. I risultati non furono però quelli sperati. Non era più la giovane promessa della letteratura di trent’anni prima e presto la gente perse interesse per i racconti di guerra. Sydney era un luogo meno ricettivo di Londra e faticava a costruirsi un pubblico. Gli ultimi romanzi non riscossero il successo sperato e una sua rubrica su un periodico locale dovette chiudere in breve. Sola, in mezzo a varie difficoltà finanziarie, confinata nel posto più lontano immaginabile dalla sua adorata Inghilterra, passò gli ultimi anni aggrappata ai ricordi della sua vita bohémien ormai andata. Nancy Phelan la andava spesso a trovare, di sua volontà o mandata dalla madre a sincerarsi delle sue condizioni. Iniziava a circolare la voce che avesse iniziato a bere. A volte Louise era allegra e passava le ore a raccontare aneddoti dell’Europa. Altre volte era di cattivo umore e rimproverava aspramente la nipote. Conduceva una vita troppo comoda, le diceva; avrebbe dovuto invece viaggiare, vedere le cose con i propri occhi anziché delegare agli altri, non curarsi della sicurezza economica, rischiare. “C’è un solo momento buono per essere felici” le diceva “ed è ADESSO! Oggi! E passa via di minuto in minuto. Non sprecarlo!”
Verso la fine del 1935 un ictus la strappò a quella vita che aveva tanto amato. Al funerale un amico commentò: “Fortunatamente le è stata risparmiata l’umiliazione di invecchiare. Non faceva per lei.”
E il cerchio della nostra storia si chiude con Nancy, che qualche anno più tardi fece a sua volta le valigie e partì per l’Inghilterra, spinta probabilmente dal fascino che su di lei aveva esercitato quella zia conosciuta troppo tardi. Molti anni dopo si darà da fare per ricostruire la sua vita, assemblando ricordi di famiglia, documenti e sensazioni ricavati da un viaggio sulle sue orme attraverso l’Europa. Memore forse del principale insegnamento ricevuto da lei: si è vivi fintanto che si è ancora curiosi. Glielo aveva ripetuto fino alla noia. Ma lo aveva anche scritto nelle sue opere. In un brano del capitolo XXXI de Una donna alla Grande Guerra, Louise Mack si interroga sui motivi per cui, pur trovandosi in guerra, spesso non ha provato paura, ma al contrario è andata incontro a pericoli d’ogni sorta pur di soddisfare la sua voglia di essere testimone. Si chiede se per caso il suo non sia cinismo. Ma alla fine questa è la sua risposta:
Non sei cinico soltanto perché sei curioso. Piuttosto il contrario. Sei curioso perché sei vivo, perché cammini su questa terra e perché sei stato creato con l’istintiva idea di avere diritto a vedere e ascoltare tutti gli strani e meravigliosi avvenimenti, tanto quelli terribili quanto quelli gloriosi, che costellano l’esistenza degli uomini. Non interessarsi, non voler vedere, non voler conoscere, questo sì che è cinismo senza scusanti!
Marcello Donativi